Due gocce d’acqua

Valeria Vella
VALERIA VELLA
Inchiostro
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«Violet!» chiamò qualcuno alle sue spalle. Ma Violet non si voltò.

Non perché non avesse sentito o fosse maleducata. Violet aveva semplicemente dimenticato il suo nome.

Lo aveva perso da qualche parte, forse in mezzo alle decine di formule che aveva dovuto imparare per affrontare il suo esame di chimica.

Le suonava lontanamente familiare, però, come l’eco di una voce portata dal vento.

«Violet!» udì di nuovo, e si strinse fra le braccia, vagamente a disagio. Sbirciò appena indietro, disinvolta e fu costretta a piantare fermamente i piedi per terra.

Due grandi iridi castane la fissavano dall’altro lato della strada, cupe e brillanti al contempo. Sembravano il cielo in una giornata di marzo: sereno e annuvolato l’attimo dopo.

Rappresentavano perfettamente l’animo della loro padrona.

«Addie» mormorò allora, in risposta, e quella le sorrise.

Violet e Addie erano state migliori amiche per anni. Erano cresciute insieme, a pochi metri di distanza, e avevano frequentato la stessa classe in tutte le scuole fino alle superiori.

Era stato naturale, per loro, legare. Avevano poco in comune, ma lì dove Addie mancava, Violet compensava. E così viceversa.

Quando i genitori di Violet litigavano, poi, era sempre Addie a risollevarle il morale. E quando Addie si rifiutava di uscire dalla sua stanza, era Violet a tirarla giù dal letto.

Non avevano bisogno di condividere le loro passioni. Ad entrambe bastava esserci l’una per l’altra.

Crescendo, i loro amici avevano iniziato a scorgere in loro una certa somiglianza: “Due gocce d’acqua” le definivano. Violet stentava a crederci ogni volta.

D’altronde, lei e l’amica non avevano un solo capello che fosse uguale a quelli dell’altra. Neanche facendo un grande sforzo d’immaginazione. Per cui, quell’osservazione rimaneva per lei una mera battuta, che la ragazza accettava a cuor leggero. Niente di offensivo o, tantomeno, qualcosa di cui preoccuparsi.

Violet non si allarmava, né si poneva domande quando, per i corridoi, uno sconosciuto la fermava per chiederle gli appunti di una lezione a cui non era nemmeno mai stata. Eppure, episodi di quel genere accadevano in continuazione: a scuola così come nel quartiere in cui vivevano e, talvolta, anche sui mezzi.

«Addie!» si sentiva urlare dietro, e Violet, puntualmente, girava sui tacchi e mostrava bene il viso.

Sentiva ripetere così spesso quel nome che, quando usavano il suo, non prestava più attenzione. Quante sberle aveva ricevuto da sua madre, proprio per quel motivo!

Fu solo guardando le trecce dell’amica, in un afoso pomeriggio di agosto, che Violet finalmente comprese quel che gli altri intendevano dire.

In effetti, quell’acconciatura differiva dalla sua solamente per il colore dei capelli. Addie, inoltre, aveva bucato le orecchie e indossava pesanti boccoli d’oro, pressappoco uguali ai suoi.

A ben guardare, anche il suo abbigliamento le pareva fin troppo simile al proprio: stessi pantaloncini sfrangiati, stesso top di uno sgargiante rosso e stesse Converse ai piedi, con la suola decorata da scarabocchi in pennarello.

Addie, notò qualche tempo dopo, non beveva più caffè e, al bar, ordinava sempre una Cola. Proprio come faceva lei. E, quando nervosa, si tormentava il lobo. Come faceva lei.

Come lei, si era unita al giornalino scolastico. Come lei, aveva preso a correre tutte le mattine e cominciato a suonare la chitarra. Come lei, rideva rumorosamente e starnutiva silenziosamente. Come lei, scappava quando le si avvicinava un cane.

Come lei. Come lei. Come lei.

Violet credette di impazzire.

Quando Addie era diventata il suo riflesso? Era sempre stato così?

Rise al solo pensiero e si diede della paranoica. In fondo, era di Addie che si stava parlando: era normale, dopo aver trascorso così tanto tempo in simbiosi, che avessero sviluppato le stesse abitudini. No?

Nessuno, poi, pareva starne facendo un grande dramma. Violet, quindi, ingoiò il rospo e continuò di buon grado sulla sua strada.

«Addie!» chiamava sempre qualcuno alle sue spalle. E Violet si voltava.

«Addie!» facevano, e lei rivolgeva loro l’accenno di un sorriso.

«Addie!» sussurravano, strillavano, borbottavano. Violet non mancava mai di rispondere.

Una notte, un pensiero sovrastò gli altri.

«Sarò io a somigliarle?» si chiese. Mai aveva dubitato della cosa.

Nessuna replica le sovvenne dal silenzio, così la ragazza si convinse che fosse vero. Non poteva essere altrimenti: quand’era stata l’ultima volta che la Violet reale – ve ne era mai stata una? – era stata interpellata?

Seppur una parte di sé, a metà fra la gola e lo stomaco, le urlasse di rinsavire, Violet accettò comunque, inerte, di veder tutto il suo mondo ridotto ad una copia.

«Due gocce d’acqua?» rise amaramente. «Non sono altro che una pallida imitazione.»

«È passata un’eternità dall’ultima volta che ci siamo viste.»

Immobile proprio di fronte a lei, avvolta in un pesante giaccone, Addie le sembrò un miraggio.

Aveva tagliato i capelli, si accorse, e le arrivavano al mento, taglienti. Indossava anche gli occhiali, un’elegante montatura metallica che spinse sul ponte del naso, con la punta del mignolo.

Distratta, Violet passò le dita fra le ciocche morbide che le sfioravano la mandibola e, subito dopo, strinse l’asticella delle sue lenti, raddrizzandole. Contrasse la fronte, turbata, e, con ancora i polpastrelli attorno alla fredda stanghetta di acciaio, annuì appena.

«Saranno almeno due anni» concordò.

Due anni in cui Violet era stata lontana da casa e dalla città in cui era cresciuta. Due anni in cui era scomparsa dalla circolazione, mortalmente terrorizzata dalla piega che la sua vita – e la sua mente – stava prendendo.

«Ho saputo che hai trovato lavoro.» Addie dondolò sui talloni e, nel movimento, il manico della borsa che teneva in spalla le scivolò lungo il braccio.

Violet si sporse ad afferrarlo d’istinto.

«Grazie» civettò l’altra, sistemandosi. «Speravo di incontrarti, sai? Anche io pensavo di fare domanda-»

Violet smise di ascoltare.

Penzolante dall’impugnatura, un portachiavi a forma di rana ricambiava il suo sguardo con un solo occhietto nero.

«Quello…» la interruppe allora, indicando il peluche. «È Greeny

Lo aveva vinto in una macchina a gettoni, quando, per il suo decimo compleanno, aveva deciso di festeggiare al luna park. Aveva speso una quantità imbarazzante di spiccioli per riuscire a prenderlo.

Da quel momento, lo aveva sempre portato con sé, legato alle chiavi di casa. O, almeno, era stato così fino a quando, durante il suo trasloco, esattamente due anni prima, non aveva finito per perderlo.

Addie tacque. Spostò il peso da una gamba all’altra, con un’espressione spaesata in viso, e suonò vaga quando «Greeny?» domandò, rigirandoselo fra le dita.

Poi, si illuminò. «Oh. Ora capisco perché mi sembrasse familiare.»

Doveva pensare di esser stata convincente.

Violet rimase di marmo. Non ricambiò la sua ilarità neanche per un secondo. Era come se tutto attorno a lei fosse stato messo in pausa. E, a ben pensarci, era proprio così.

Immaginò di uscire dal suo corpo e di osservare la scena da fuori, e quel che vide la fece rabbrividire.

Parevano due gocce d’acqua. Anche dopo tutto quel tempo.

Valeria Vella