Giorgio Poi

Giorgio Poi- Schegge: frammenti sonori di un’anima in evoluzione

Gaetano Aspa
GAETANO ASPA
Musica
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Giorgio Poi
Schegge non è un album facile, ma è necessario per chi ha ancora voglia di ascoltare davvero, senza saltare tracce, senza cercare solo il ritornello. Un album che non ti consola, ma ti capisce. E a volte basta quello. Voto UVM: 4/5

Nel panorama dell’indie italiano, Giorgio Poi è sempre stato un equilibrista raffinato, un autore capace di camminare sul filo che separa l’introspezione dalla leggerezza, la melodia pop dall’inquietudine sottile. Con Schegge, il suo nuovo album, sembra aver lasciato cadere quel filo per frantumarlo, e raccoglierne poi i pezzi più taglienti e lucenti. Il risultato è un disco che non chiede di essere capito, ma attraversato.

Un viaggio tra le tracce

Il titolo non è casuale: Schegge è davvero un insieme di frammenti non disordinati, piuttosto pagine strappate da un diario con gli angoli bruciacchiati, ancora pieni di verità. Ogni canzone è un microcosmo, una fenditura nel tempo in cui Giorgio fa passare la luce delle sue emozioni: l’ironia, la malinconia, la paura della fine e l’incanto delle piccole cose. Il suono si è evoluto, più stratificato, più ampio, ma mai sovraccarico. C’è un’eleganza sottile nella produzione, che unisce tastiere spaziali a ritmiche leggere, e una voce sempre vicina, sussurrata, come se stesse cantando solo per te.  L’album racconta questo tempo rallentato, questa sospensione emotiva che rende Schegge un’opera coerente: non un concept album, ma una mappa emotiva tracciata con delicatezza. I testi, come sempre, sono ellittici, pieni di immagini spiazzanti e quotidiane (“Il bottone è sbagliato in un’asola”, “Sfogliavo i tuoi capelli con le mani”).

   

Schegge: frammenti di un tempo sospeso

L’album si apre con giochi di gambe, brano dove l’ironia incontra la sensualità. È una canzone sull’attrazione e sulla goffaggine che accompagna l’intimità. I riferimenti stilistici vanno dal funk leggero anni ’70 al cantautorato indie italiano contemporaneo. L’arrangiamento è sinuoso, con un basso quasi parlante. La frase “Sulle tue gambe batte un sole che mi fa morire” ha la forza ambigua di una carezza sotto una luce al neon.

Una ballata liquida e rarefatta che scivola sotto pelle come un sogno d’estate dimenticato, Nelle tue piscine affonda in un immaginario acquatico per raccontare lo smarrimento identitario, ma senza mai alzare la voce. Le piscine diventano qui metafora ambigua — rifugio e prigione, specchio e abisso — di una ricerca di sé che non approda mai a una riva definitiva. È la dolcezza inquieta di chi si perde senza volersi davvero ritrovare.

 La scrittura di Giorgio Poi — che già nei dischi precedenti giocava con le immagini e la sospensione del senso — qui si fa ancora più ellittica, rarefatta, frammentaria. Non è un caso che  Uomini contro insetti, brano che sembra una lunga visione allucinata, tra critiche ecologiche, surrealismo urbano e umori pasoliniani. Il tono è dimesso, ma le immagini sono visionarie: “Mi hai lasciato sulle labbra il rosso dell’alchermes, e il tuo herpes”.

 

Il titolo, enigmatico e quasi scientifico, evoca una soglia oltre la quale la vita — e forse anche l’amore — non può più sopravvivere. Non c’è vita sopra i 3000 Kelvin è un brano che fonde inquietudine cosmica e tenerezza domestica, dove la fisica del calore si trasforma in metafora affettiva: il cuore, quando arde troppo, rischia di non sentire più. Il verso chiave, «Metti un orecchio sul mio petto / e all’improvviso hai capito tutto», ricorda da vicino la poetica di Lucio Dalla — quella capacità di condensare la vertigine dell’amore in un gesto minimo, quotidiano, quasi infantile.

Nel paesaggio emotivo del disco, Les jeux sont faits rappresenta il momento della resa elegante, dell’abbandono lucido, in cui la perdita diventa anche una forma di maturazione. La melodia è rarefatta, trattenuta, come se ogni nota esitasse prima di cadere, mentre il testo affonda in una forma di confessione trattenuta, in cui la voce sembra parlare tanto a un altro quanto a sé stesso. L’introspezione si carica di una dolce rassegnazione, che richiama certi finali felliniani: tutto è già accaduto, e non resta che guardarlo scorrere come un film che conosciamo a memoria.

Estetica della frantumazione

Già la title track, schegge, colpisce per economia espressiva: un minuto e mezzo che è dichiarazione poetica e gesto zen. Qui ogni canzone è un frammento che non vuole ricomporsi: è la bellezza dell’incompiuto.

Tutta la terra finisce in mare è invece un picco emotivo. La canzone osserva la vita dall’alto, come se cercasse un punto di fuga nel dolore. C’è qui un’intimità che non si chiude in sé, ma si espande, ricordando certe pagine di Lettere a un amico lontano di Franco Arminio, o i lunghi campi larghi del cinema di Alice Rohrwacher: la lentezza come forma di rispetto, la distanza come dichiarazione d’amore.

 

Un aggettivo, un verbo, una parola, probabilmente il brano chiave dell’album, sembra dialogare a distanza con Cara di Dalla. Lì c’era la costruzione progressiva del desiderio; qui, l’addio diventa un esercizio di grammatica, in cui ogni strumento è punteggiatura e la voce diventa silenzio. Un addio scritto “nell’attimo esatto in cui accade”, come dice lo stesso Poi.

Chiude il disco delle barche e i transatlantici, brano che potrebbe essere scambiato per una novella di Buzzati musicata da Battiato. Protagonista è la metafora del viaggio, del trasloco interiore, dell’andarsene senza clamore. La leggerezza qui non è evasione, ma scelta consapevole. È il punto d’approdo dopo una navigazione incerta.

Conclusioni

Con Schegge, Giorgio Poi non rivoluziona se stesso, ma affina la sua poetica. È un disco che non si consuma, ma si lascia abitare. Non è per chi cerca canzoni da canticchiare, è per chi ha ancora voglia di perdersi nei dettagli, negli echi, negli spigoli. In un’epoca che ci vuole sempre interi e performanti, lui ci ricorda che anche le schegge possono riflettere la luce.

Gaetano Aspa