Queer

Queer: un’esperienza sensoriale firmata Guadagnino

Carla Fiorentino
CARLA FIORENTINO
Film
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Queer
Una messinscena cinematografica particolarmente sentita e studiata, forse fino a un eccesso di calligrafia e maniera. Ciò nonostante, Guadagnino dà prova per l’ennesima volta del suo gusto estetico nella fotografia e nella resa materiale dei simboli, delle visioni allucinate e delle esperienze sensoriali che fanno da perno al libro. – Voto UVM: 3/5

Il seme germinale di questo esperimento artistico nacque in Guadagnino a 17 anni, dopo il primo approccio con la letteratura di Borroughs, che lo colpì a tal punto da valere un’attesa di tre decenni prima di essere realizzato. 

Un nume tutelare del sentire e dello stile della Beat Generation, una colonna della letteratura americana meno “integrata”, Borroughs, che solo trent’anni dopo la sua scrittura potè pubblicare un’opera lisergica, eccessiva, fragile e personale come Checca (adesso rieditato con il titolo originale, lo stesso del film, da Adelphi). 

Il nuovo lavoro del regista palermitano, presentato in concorso all’ottantesima edizione della mostra del Cinema di Venezia e uscito nelle sale cinematografiche il 17 aprile scorso, è dunque una messinscena cinematografica particolarmente sentita e studiata, forse fino a un eccesso di calligrafia e maniera. Ciò nonostante, Guadagnino dà prova per l’ennesima volta del suo gusto estetico nella fotografia e nella resa materiale dei simboli, delle visioni allucinate e delle esperienze sensoriali che fanno da perno al libro.

Queer
Daniel Craig e Drew Starkey in una scena di Queer – Luca Guadagnino (2025) per Luckyred

Sinossi

Suddivisa in tre capitoli, la storia si svolge in quella che Burroughs chiama “Interzona”, a metà tra Città del Messico e Panama. 

William Lee (Daniel Craig) – alter ego dello scrittore – è un americano eroinomane di mezza età,  espatriato a seguito di un raid antidroga, e che ora usufruisce di una serie di benefici offerti ai veterani di ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale. 

Passa le sue giornate tra eroina e mezcal, in solitudine o con altri membri della piccola comunità americana queer presente in città e intrattiene spesso rapporti occasionali insieme a ragazzi più giovani.

L’incontro con un enigmatico Eugene Allerton (Drew Starkey), giovanissimo militare della marina in congedo, lo porterà a desiderare di stabilire una connessione decisamente più intima con qualcuno, che trascenda la dimensione fisica e verbale: Lee anela un intreccio mentale, in cui poter “parlare senza parlare”.

Allerton, però, non ammette la sua omosessualità mantenendosi emotivamente impenetrabile, mercuriale, alternando capricci e attenzioni. Nel mentre l’ossessione cresce ogni giorno di più in Lee, che arriva ad interessarsi alle proprietà di una nuova droga, chiamata yagé, in grado di conferire doti di telepatia. Decide così di intraprendere un logorante viaggio in Ecuador insieme ad Eugene, alla ricerca di un’esperienza che li svincoli dai limiti del corporeo. 

Queer: tra illusione e realtà

Storia in cui passione e droga non lasciano spazio a momenti di lucidità, Queer è un tentativo stilisticamente interessante. Ambizioso al punto da rischiare di risultare sconnesso, si presenta come un azzardo alla soglia del disturbante. É però ammirevole un approccio alla messa in scena così evocativo ed immaginifico, come è chiaro nella scena in cui Lee vede tutt’intorno vari altri sé di diverse età e dimensioni.

Simboli e allucinazioni sono sicuramente la cifra del film, materializzate on screen da un Guadagnino mai stato così esplicito. L’intenzione è quella di incarnare il desiderio di sentire attraverso quel registro più visionario e tendente all’orrore con cui aveva già lavorato in Suspiria. 

Queer
Daniel Craig e Drew Starkey in una scena di Queer di Luca Guadagnino (2025) per Luckyred

Queer: tra Guadagnino e Borroughs

Nel finale, quel colpo di pistola ha echi biografici della vita di Borroughs. Rievoca il momento in cui sua moglie perse la vita a causa di un presunto incidente provocato dallo stesso scrittore che, sulla scia di Guglielmo Tell, aveva messo un bicchiere di cognac sulla sua testa per usarlo come un bersaglio, mancandolo e uccidendo la donna.

Proprio in attesa della sentenza è iniziata la scrittura di Queer, un romanzo redatto con la tecnica dadaista del cut-up, cifra stilistica dell’autore, che consisteva nel tagliare e decontestualizzare pagine, frasi, parole di altri scritti e rimontarle in un nuovo testo. E così, mano a mano che nel film la realtà e l’illusione si smarginano e si mescolano tra loro, Guadagnino svincola la narrazione anche dal tempo e dallo spazio.

Il film risulta profondamente fedele allo spirito del romanzo, ma sceglie di non seguire passo passo la via crucis di una passione non corrisposta, immaginando piuttosto situazioni non presenti nel testo. Supera i confini del libro: mentre nel romanzo i due personaggi non riescono a provare l’ayahuasca, nel film viene mostrato l’effetto della sostanza direttamente per come loro lo percepiscono in una sequenza allucinata che va a scavare nell’animo del protagonista. Ogni frame, dai titoli di testa a quelli di coda, è caricato di senso.

Borroughs non cerca spiegazioni né empatia, e Guadagnino non giudica i suoi personaggi, li rappresenta ed accompagna lasciando che siano i loro silenzi a parlare.

Queer dietro la macchina da presa

La regia è essenziale, quasi ascetica: non ci sono scene madri né climax, solo una lunga discesa nell’inadeguatezza del protagonista.

Dettaglio piacevole per i suoi ammiratori, i titoli di testa del designer JW Anderson ricordano quelli del fortunatissimo Chiamami col tuo nome, ma con un’estetica decisamente differente. Il crudo realismo degli effetti speciali, le sequenze danzate in cui il movimento e la luce creano giochi visivi dinamici, l’introspezione dei personaggi veicolata per immagini con un certo gusto per il metafisico, la sensazione di tangibilità offerta allo spettatore: è evidente la visione del regista e lo studio del soggetto. 

Ricco di riferimenti, il lungometraggio rende omaggio a una sequenza dell’Orfeo di Cocteau (1950), ed effettivamente, come i guanti di Jean Marais, il film ci fa passare attraverso gli specchi ed esplorare l’inconscio di Lee. Il film si chiude poi con una scena commovente, che gioca addirittura con vaghi rimandi al cinema di Stanley Kubrick.

Da non perdere la collaborazione con Jonathan Anderson per i costumi, che i più attenti avranno notato stropicciarsi sempre più a mano a mano che il film si avvicina alla fine.

“Nota stonata” è proprio la musica: la colonna sonora di Trent reznor e Atticus Ross dei Nine Inch Nails, con tanto di apparizioni di Nirvana e Verdena.  Se il tema principale risulta piacevole, la scelta di questi ulteriori innesti è anacronistica a dir poco. Se l’intento era la bellezza del contratsto, la resa finale ci mostra tutt’altro e si discosta dall’esperienza emotiva che vediamo svolgersi sullo schermo. Anche la narrazione risulta confusa, la struttura narrativa del film appare schematica e forzata e – come spesso accade in progetti particolarmente sentiti – la messinscena tende al manierismo. 

Carla Fiorentino