La Cosa

La Cosa: fantascienza paranoica e guerra fredda

Aurelio Mittoro
AURELIO MITTORO
C'era una volta un cult
cinema fantascienza horror John Carpenter La Cosa
Parthenope
Il ritratto di una società violenta e psicotica in uno dei film horror-fantascientifici più iconici di sempre: “La Cosa”. Voto UVM: 5/5

La Cosa è indubbiamente uno tra i cult cinematografici più discussi di sempre: remake di La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks (1951), fu eclissato dal roboante successo della fantascienza sciatta e buonista di E.T. l’extra-terrestre in quel novembre del 1982 ma riuscì, nel tempo, a farsi strada nel cuore degli appassionati grazie ad una sceneggiatura semplice ma ricca di colpi di scena, degli effetti visivi straordinari per l’epoca e tutt’ora mozzafiato, nonché La magistrale colonna sonora di Ennio Morricone. Tutti questi elementi, coadiuvati da una regia politica e visionaria del maestro John Carpenter, delineano una pellicola ricca d’azione ma con tempi dilatatissimi, orrorifica e disgustosa ma al tempo stesso leggera e grottesca, fantascientifica nella sua atmosfera e nel suo iconico villain ma terribilmente concreta ed impressionista nelle sue dinamiche e nella critica contro una società americana violenta, paranoica e menefreghista.

LA TRAMA

Il film si apre con l’inseguimento di un cane da parte di due ricercatori norvegesi a bordo di un elicottero. I due sembrano più che determinati a sopprimere la bestia in fuga, la quale trova rifugio nella base americana U.S. Outpost #31, ma la cattiva sorte fa si che il pilota rimanga coinvolto nell’esplosione dell’elicottero, causata dal lancio maldestro di una granata, e che l’altro ricercatore non riesca a spiegare la gravità della situazione ai suoi colleghi statunitensi, per via della barriera linguistica che li separa: nel picco massimo di tensione, il norvegese colpisce erroneamente uno degli americani e la situazione degenera in una sparatoria. Ucciso il pazzo straniero dal comandante Garry (Donald Moffat), la crew dovrà affrontare una minaccia ultraterrena, che sembra infettare ed assumere le sembianze di ciò che tocca, e che loro stessi hanno lasciato entrare…

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

LA DECOSTRUZIONE DELL’EROE

Nonostante le varie personalità del gruppo siano ben delineate ed ampiamente caratterizzate, tra i 12 membri della squadra di ricercatori spicca immediatamente quella di R.J. MacReady (Kurt Russel), per via del suo carisma prorompente ed anche grazie ad una certa spavalderia.

La messa in scena suggerirebbe il più banale dei protagonisti valorosi e puri di cuore, eppure già nei primi minuti del film MacReady perde a scacchi contro un computer e lo accusa di aver barato, per poi annegare i suoi circuiti nel Whiskey; ciò che all’apparenza potrebbe sembrare il classico eroe da film d’azione americano, sicuro di sé e sempre pronto a salvare la situazione, Carpenter lo trasforma lentamente in una macchietta arrogante, cocciuta e violenta, perennemente confusa ed incapace di accettare la sconfitta.

UNA REGIA FUNZIONALE ED INNOVATIVA

Le sue abilità registiche, Carpenter, le aveva già messe in mostra in svariate pellicole, passando dai classici horror slasher come Halloween – La notte delle streghe a film d’azione ritmati alla 1997: Fuga da New York, eppure non aveva ancora sfoggiato una tale creatività e polivalenza come in questo film: il regista statunitense dà voce a tutte le sue influenze accostando momenti di body horror puro a dialoghi freschi e cadenzati, alternando scene d’azione con un montaggio serrato ad inquadrature fredde e serafiche (e per questo inquietanti), il tutto mantenendo il ritmo sempre costante ed oscillando continuamente tra il destabilizzante ed il grottesco.

Di grande aiuto furono gli interventi di Robert Bottin, un artigiano degli effetti speciali analogici che contribuì ad ideare ed a realizzare la “cosa” nelle sue varie e spaventose forme.

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

GLI ANNI ’80 E LA VISIONE DI CARPENTER

Negli anni ’80 del secolo scorso la guerra fredda era ormai agli sgoccioli, e gli U.S. spalancavano le porte al cosiddetto “Edonismo Reaganiano“, un decennio segnato dal consumismo dilagante, nonché una vacua ricerca dell’appariscenza e della spensieratezza nettamente in contrasto con le lotte politiche e il clima di terrore che avevano segnato gli ani passati: i cittadini americani rigettarono l’impegno collettivo atto a migliorare la società e si rinchiusero nella loro sfera privata, perseguendo unicamente la propria felicità personale.

Carpenter coglie perfettamente questo clima di disinteresse apatico e disillusione politica, e lo trasforma nel suo film in una crescente diffidenza tra i membri della crew, alle prese con una minaccia che potrebbe tranquillamente assumere le sembianze dell’uomo con cui hai condiviso la stanza fino a ieri; la fiducia reciproca viene meno, la cooperazione diventa impossibile ed è così che l’uomo è costretto a regredire allo stato di bestia.

IL FINALE

La Cosa
Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

Del resto è la natura stessa della “cosa” a rappresentare una minaccia ideologica per gli americani: il timore di essere assimilati ad un essere senza identità, che può diventare la tua identica copia in tutto e per tutto è indubbiamente terrificante, ma nella cultura dell’io tale prospettiva scardina completamente ogni certezza che abbiamo su ciò che siamo effettivamente.

Nel film risulta impossibile distinguere un organismo originale da uno assimilato, ed in alcuni momenti sembra che neanche quest’ultimo si renda conto di essere ospite della “cosa” fino a quando essa non si palesa. Il culmine viene raggiunto nel finale, quando gli ultimi superstiti si incontrano dopo aver fatto esplodere la base: la minaccia sembra svanita, eppure la tensione è al suo picco; non vi è un minimo segno di empatia, solo due esseri umani pronti a morire da soli pur di non dialogare l’uno con l’altro. 

 

di Aurelio Mittoro