Sei mesi di guerra nella Striscia di Gaza

Francesco D'anna
FRANCESCO D'ANNA
Attualità
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Sono trascorsi circa sei mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando diversi miliziani presero di mira diversi kibbutz nel sud di Israele. Questa serie di attentati, noti come operazione diluvio Al-Aqsa, ha portato alla morte di 1200 persone fra civili e militari israeliani. Contestualmente circa 250 ostaggi sono stati trasportati nei tunnel sotterranei della Striscia, usati come centro operativo da Hamas.

La reazione di Israele non si è lasciata attendere: il giorno seguente ha dichiarato lo stato di guerra con la Striscia di Gaza, una delle zone più densamente popolate al mondo. Qui vi abitano più di 2 milioni di persone, soprattutto palestinesi, in un’area geografica di 365 km2 (pari circa alla metà di quella di Madrid). Lo stato ebraico ha mobilitato migliaia di riservisti per organizzare una cospicua operazione di terra nella Striscia, preceduta da intensi bombardamenti su bersagli civili e militari. Le perdite umane complessive fra gli abitanti della striscia sono più di 30.000, un terzo dei quali rappresentati da bambini.

(Flickr)

La catastrofe umanitaria nella Striscia

L’operazione israeliana nella Striscia, organizzata per recuperare gli ostaggi ed eradicare Hamas dal territorio, non ha finora sortito gli effetti desiderati dal governo Netanyahu. Inoltre ha causato una catastrofe umanitaria nella Striscia: milioni di persone sono sfollate, vivono in condizioni igienico-sanitarie molto precarie ed è in corso una gravissima carestia. Nonostante le pressioni internazionali, Israele non ha facilitato l’arrivo o la distribuzione di aiuti umanitari. Ha inoltre chiuso la maggior parte dei valichi con la Striscia e non ha garantito percorsi sicuri per i convogli.

Recentemente ha fatto molto clamore la notizia dell’uccisione di sette operatori umanitari della ONG World Central Kitchen. Israele ha colpito tre auto dell’organizzazione poiché sospettate di trasportare un miliziano di Hamas. Questa ipotesi si è poi rivelata incorretta, inducendo Israele ad aprire un’inchiesta interna su chi abbia ordinato l’esecuzione. L’opinione pubblica internazionale tuttavia ha definito questo atto come: farebbe parte della strategia israeliana di affamare la popolazione palestinese come arma da guerra. L’attacco ha portato all’interruzione degli aiuti nella striscia da parte di WCK e di altre ONG, aggravando ancor di più le condizioni umanitarie.

Questi fatti si aggiungono a quelli dei mesi precedenti che hanno spinto il Sudafrica a fare causa ad Israele alla Corte internazione di giustizia dell’Aia. Quest’ultimo, secondo i sudafricani, non starebbe rispettando la Convenzione sul genocidio. L’opinione pubblica ha largamente lodato l’iniziativa giudiziaria, sebbene questa richieda tempi relativamente lunghi prima di ricevere un esito definitivo.

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Le reazioni della comunità internazionale

La comunità internazionale ha condannato la reazione israeliana, ritenuta spropositata e ingiusta. Tuttavia l’opinione pubblica ritiene insufficienti le misure prese contro la guerra: molti chiedono l’imposizione di un cessate il fuoco permanente e l’interruzione della vendita di armi a Israele. Inoltre diversi attivisti e politici denunciano il ritardo nelle azioni prese dall’ONU. I veti incrociati di Stati Uniti, Russia e Cina hanno infatti più volte bloccato l’operato delle Nazioni Unite.

Le Nazioni Unite hanno approvato due risoluzioni relative alla situazione nella Striscia solo nell’ultimo mese. La prima è quella del 25 marzo che chiede un immediato cessate il fuoco, approvato grazie all’astensione degli Stati Uniti: è teoricamente vincolante per Israele, che però non risulta al momento intenzionato a farlo. L’UNHRC, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha invece approvato la seconda, chiedendo l’interruzione della vendita di armi a Israele.

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Il ritiro da Khan Yunis

Negli ultimi giorni, le truppe di terra israeliane hanno abbandonato le loro postazioni a Khan Yunis, una delle ultime città a sud della Striscia. Il motivo fornito da Israele è quello di permettere al suo esercito di riposarsi e organizzarsi per le successive operazioni a Rafah. Qui si concentrano le sacche resistenza residue di Hamas ma anche nonché la maggior parte degli sfollati, spinti progressivamente dall’avanzata militare israeliana.

Ad oggi non si conosce con precisione la ragione per cui i membri della 98esima divisione stiano ritornando alle loro postazioni dall’altro lato del confine. Secondo esperti e analisti però è da escludere una fine del conflitto. Molto probabilmente Israele non rinuncerà all’invasione di Rafah, così come ricordato dal ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e dal presidente Benjamin Netanyahu. Alcuni esponenti interni al governo israeliano non sono però così sicuri: paventando una presunta indecisione da parte dell’esecutivo, il ministro della Sicurezza nazionale Itaman Ben-Gvir ha dichiarato che Netanyahu «non potrà servire da Primo ministro se decidesse di non invadere Rafah».

Nel frattempo molti sfollati stanno facendo il loro ritorno a Khan Yunis, dove hanno trovato mucchi di macerie e corpi.

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