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Stefano d’Arrigo, il narratore “epico” dello Stretto

Cultura Locale
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Figura dal quale non si può prescindere se si parla di letterati dello Stretto, Stefano d’Arrigo è stato tra i più importanti scrittori del secondo Novecento italiano. Nato ad Alì Terme il 15 ottobre del 1919, lo ricordiamo principalmente per il suo romanzo più importante (e più grande letteralmente in termini di pagine): Horcynus Orca. Uscì dapprima a puntate per la rivista Il Menabò nel 1960, fondata a Torino nel 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino. Successivamente, l’opera venne raccolta nelle bozze dei cosiddetti “Fatti della fera” sottoposte ad un lavoro di revisione, durato circa quindici anni. La stesura definitiva uscì per Mondadori nel 1975. Scrisse anche “Cima delle nobildonne” il quale uscì nel 1985 e presenta uno stile decisamente diverso dal primo citato.

Spiegare l’importanza dello scrittore e del suo romanzo a tratti epico, a tratti post-moderno, è interessante sia perché nasce in un clima fortemente sperimentale per la narrativa italiana dell’epoca e perché, chiaramente, è una storia ambientata sullo Stretto. Dunque, riaffiora tra le 1257 pagine il profilo identitario di questo luogo/nonluogo, districandosi tra rivisitazione del mito e un richiamo parodico (ma non troppo) all’Odissea di Omero, affermandosi a tutti gli effetti nel genere post-moderno.

Horcynus Orca

 

Copertina di Horcynus Orca (fonte: ibs.it)

 

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio nocchiero semplice della fu regia Maria ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’ e cariddi

 

Muovendosi sulla falsa riga del poema epico, strutturato in prosa a differenza dell’Odissea, Horcynus Orca è “un’opera sinfonica, l’omaggio a una civiltà scomparsa, la comunità pagana dei cariddoti dello Stretto di Messina «straviati» dalla guerra che ha spazzato via e stravolto ogni segno del loro universo regolato dalle leggi senza tempo del mito”[1]. L’autore affronta diversi temi, tra cui “il rapporto tra l’uomo e il mare, i traumi della age of anxiety che si traducono nel flusso di coscienza e il nostos, il ritorno in patria di un eroe dalla guerra”[2].

 

La lingua “darrighiana”

La lingua di Horcynus Orca, definita “composita e polifonica” da Marco Trainito, determina il destino dei personaggi e il potere rigeneratore delle parole contro il silenzio, costituisce il discrimine che separa chi dopo la guerra torna alla vita e chi rimane tra le macerie.

Questa strategia, secondo Virginia Fattori “rappresenta il modo trovato dall’autore per insegnare la sua lingua ibrida ai futuri lettori”. Le particolarità linguistiche, così come le tematiche, “vengono introdotte in modo tale che la deviazione dalla norma turbi in maniera controllata e controllabile la percezione e la comprensione del testo dimodoché a lungo andare queste parole diventino per il lettore comuni”[3]. Da qui si comprende che dalla lingua, probabilmente, si ritrova l’origine dell’immaginario, poiché si afferma come atto di ribellione contro un mondo impoverito e dilaniato dalla guerra, e anche per comprendere le radici culturali di un luogo. Prendiamo come esempio il seguente passaggio:

 

Voi sapete la differenza che passa fra il sentitodire e il vistocogliocchi? È la stessa che passa, figuratevi, tra la notte e il giorno. E la notte, non so se lo sapete, è femmina e fa chiacchiere, mentre il giorno è maschio, piscia al muro e porta il fatto

 

A cosa e a chi si riferisce D’Arrigo? Il vistocogliocchi rappresenta la sicurezza dell’osservare diurno, presuppone dunque la verità assoluta. Il sentitodire, al contrario, rappresenta il classico curtigghio di queste parti, dove però la verità non si presenta in forma assoluta. Se è vero che la letteratura è racconto dell’invisibile che non esiste, ma che si materializza, in Horcynus Orca tutto si incastra alla perfezione, nonostante l’evidente mescolanza di generi e l’alternanza del registro linguistico tra basso e alto, neologismi (“nuovolare”, che unisce “nuotare” e “volare”, “orcaferone” da “orca” e “fera” con il suffisso accrescitivo “-one”). Ciò non è da interpretare “tanto come una volontà straniante nei confronti del lettore” secondo Gina Bellomo, bensì come “una spinta verso la normalizzazione dei nuovi termini introdotti in modo da permettere al lettore di entrare più in fretta in sintonia con essi.”

Nonostante D’Arrigo ponga il livello della narrazione in una dimensione illusoria e mitica, tutto ciò è funzionale per comprendere la storia di Messina stimolandone la memoria. Si può trovare conforto cercando, nei versi che raccontano il mare e la città rifugio e oblio, esotismo e mistero, aspetti che probabilmente inducono al paradosso. Eppure, senza di essi non esisterebbe la letteratura, né quel fascino verso l’ignoto da scoprire, specialmente se la storia è ambientata a casa nostra.

Federico Ferrara

 

Le fonti citate sono contenute nel lavoro di tesi triennale del redattore, il cui titolo è “L’immaginario dello Stretto. Un’indagine letteraria”.

[1] Ambra Carta, In una lingua che non so più dire, in «Biblioteca di Via Senato», anno XI, n.5 (maggio 2019)

[2] Gina Bellomo, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo come epopea della parola sperimentale, 24 gennaio 2020

[3] Virginia Fattori, Un’indagine sull’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, 14 settembre 2020