Sylvia Plath: la voce nella tormenta

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Sono passati sessant’anni dalla tragica morte della poetessa dall’anima di cristallo, Sylvia Plath, divenuta simbolo di ribellione femminista e pilastro della cultura letteraria americana.

Addentriamoci e ripercorriamo la vita, la poetica e l’arte del genio Plath, rendendo omaggio alla bell’anima senza tempo che continuerà a farci riflettere ed emozionare con i suoi scritti.

Io sono, io sono, io sono…

La poetessa di Boston nasce in un distretto della città da genitori immigrati tedeschi il 27 ottobre 1932. Dal talento precoce, pubblica la sua prima poesia a soli 8 anni, anno in cui perde il padre a causa delle complicazioni dovute al diabete diagnosticato tardi. Questo lutto segnerà l’anima della piccola Sylvia, che in futuro scriverà proprio una poesia dedicata al padre, caricandola di tutto l’odio e dolore che questa perdita comportò per lei.

Papà, ammazzarti avrei dovuto, Tirasti le cuoia prima che ci riuscissi.

Continuò a cercare di far pubblicare le sue poesie, riuscendo ad ottenere un successo marginale, in questo periodo cominciano i suoi gravi disturbi depressivi che l’accompagneranno per tutta la sua vita. Nel 1950, entra a studiare allo Smith College ma, al penultimo anno della sua carriera universitaria, tenta per la prima volta il suicidio. Questa esperienza verrà raccontata nel suo romanzo semi-autobiografico, La campana di Vetro (1963).

Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice ma trainata passivamente

Dopo il tentato suicidio venne ricoverata presso l’istituto psichiatrico Mclean Hospital, dove incontrò la psichiatra che la seguirà per tutta la vita, la dott.ssa Beuscher. Successivamente ottenne una borsa di studio Fullbright per l’università di Cambridge (Inghilterra).

Ogni donna adora un fascista

Fu proprio a Cambridge che conobbe il suo futuro marito, il poeta inglese Ted Hughes, la cui burrascosa storia venne raccontata nei Diari. Dopo gli studi, la giovane coppia visse per due anni negli Stati Uniti, dove la Plath insegnò allo Smith College. Fare l’insegnante le assorbiva tempo ed energie, tanto da non lasciarle il tempo per scrivere, che era la vera ed unica aspirazione di Sylvia.

Voglio scrivere perché sento il bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione ed espressione della vita

Abbandonato il posto da insegnante, optò per un lavoro part-time come receptionist nel reparto psichiatrico del Massachusetts General Hospital. Questa esperienza la portò a scrivere uno dei suoi racconti più famosi, “Johnny Panic and The Bible of Dreams” Ritornati a Boston, la Plath partecipò ai seminari di scrittura creativa di Robert Lowell, che ebbe una profonda influenza sul suo stile e conobbe quella che fu la sua più grande eterna amica/rivale Anne Sexton.

 

Sylvia Plath e il marito Ted Hughes. Fonte: pangea.news

Io sono nevrotica all’ennesima potenza

Alla fine degli anni ’50, visse per un breve periodo alla famosa colonia per artisti Yaddo, in cui Sylvia iniziò a far uscire la sua vera voce poetica, scrivendo molte poesie che verranno contenute nella sua prima raccolta, Il Colosso (1960). Rimasta incinta, tornarono a Londra, luogo dove nacque la prima figlia Frieda Rebecca.

Altra data che comincia a segnare il definitivo declino della Plath, è il febbraio 1961. In seguito all’ennesimo episodio di violenza da parte del marito, subisce un aborto spontaneo, come la stessa Sylvia scrisse in una lettera al suo terapista e come verrà raccontato in più poesie. I coniugi si trasferiscono in campagna ma dopo la fine della relazione con Hughes, la Plath torna a Londra. In queste breve felice periodo, scrive innumerevoli poesie e completa la sua seconda raccolta, Ariel, pubblicata postuma e alterata dal marito nel 1965.

Solo nel 2004, la figlia diede alle stampe la versione originale.

Morire è un’arte, come ogni altra cosa… Ammetterete che ho la vocazione

La mancanza di soldi, la solitudine e la salute cagionevole dei figli spesso malati, segnarono la sua veloce ricaduta nell’oblio della depressione. Si consumò l’ultimo ed estremo gesto della tragica vita di Sylvia Plath. Dopo aver sigillato porte e finestre della cucina, inserì la testa nel forno a gas, lasciandosi morire.

Sylvia aveva lasciato pronta la colazione per i suoi bambini, aveva lasciato la loro finestra aperta, aveva lasciato un  biglietto con scritto il numero di telefono del medico e le parole: “Per favore chiamate il dottor Horder”. Questi segni portarono molti studiosi ad affermare che la Plath non aveva intenzione di uccidersi, ma era solo un’estrema richiesta di aiuto, purtroppo mal riuscita.

 

Sylvia Plath: la voce nella tormenta
Sylvia Plath sorridente al lago. Fonte: eroicafenice.com

Cosa ci resta di Sylvia Plath?

Ridurre Sylvia Plath a mero simbolo di angoscia femminile e leggere le sue opere solo nell’ottica della sofferenza, significa relegarla ancora una volta a tutti quei canoni che ella tentava di fuggire.

I suoi scritti parlano forte e chiaro, di lei e di chiunque riesca ad immedesimarsi nei suoi personaggi, creandosi e  ricreandosi infinite volte. La sua grande capacità di raccontarsi attraverso alter-ego mitici capaci di trascendere il tempo e lo spazio, portando il suo immaginario letterario in moltissime direzioni. Scriveva e sapeva scrivere, a prescindere dalla sua biografia, dall’esperienza dei disturbi mentali e dal suo vissuto di donna.

Sylvia Plath, ancora oggi, viene spesso semplificata sotto la lente ottica della disinformazione e della discriminazione sui temi sociali della malattia mentale e di genere. Eppure, ella è una figura ambivalente, simbolo di ribellione femminile dalla potente scrittura immaginifica, che la rende impossibile da definire in un solo senso. Sylvia Plath era insieme rabbia e rassegnazione, impossibilità e movimento, morte e  sopravvivenza. Nonostante le numerose limitazioni che dovette subire durante tutta la sua vita, in quanto donna affetta da disturbi mentali, non l’hanno fermata da raccontarci svariati mondi i cui limiti non esistono.

Forse è proprio questa la sua più grande eredità che ci ha lasciato e che non siamo pronti ad accogliere.

 

Gaetano Aspa