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3 canzoni “rubate” da Jeff Buckley

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Come diceva il grande Massimo Troisi ne Il Postino? «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve». Una massima che apre anche a noi comuni mortali – che poeti non siamo – il privilegio di attingere alla bellezza dell’universale poetico. Possiamo dire lo stesso di una canzone? Non è forse vero che certe melodie eterne, a dispetto del genio di chi le ha composte, sono piuttosto di chi riesce a portarne alla luce l’anima nascosta? Di chi riesce a rivelarne la bellezza incompresa, di chi presta corde vocali e talento a quell’arte che in quanto tale non ha diritti d’autore ma appartiene ad ogni uomo?

E’ questa la poesia di voci come quella di Jeff Buckley, cantautore degli anni ’90 morto a soli 30 anni, figlio di un altro grande artista: Tim Buckley. A 25 anni dalla sua tragica morte, avvenuta per annegamento il 29 maggio 1997, non vogliamo fare un torto al Buckley cantautore raffinatissimo, compositore di canzoni delicate e allo stesso tempo potenti come Forget Her, Everybody here wants you, Lover you should’ve come over. Preferiamo però ricordare il Buckley grande interprete – tra gli altri – di successi di mostri sacri come Led Zeppelin, Bob Dylan, Edith Piaf ( penso alla sua commoventissima rivisitazione di Je n’en connais pas la fin).

Ecco a voi 3 canzoni ( e potevamo sceglierne tante altre!) che il nostro ha meravigliosamente “rubato” ad altri artisti portandole sulle vette del capolavoro.

1) Mama you been on my mind: più di un tributo al grande Dylan

Ogni cantautore americano che si rispetti non può non misurarsi col grande Bob Dylan. Diversi sono i classici che Buckley ha reinterpretato nel corso della sua carriera anche durante i live, ma ce n’è uno della discografia dylaniana, inciso nel ’64 e rimasto inedito fino al ’91, che ha davvero fatto suo. Mama you been on my mind è una folk ballad su cui l’orecchio subito si adagia e si fa cullare, una melodia semplice e leggera nel tipico stile del menestrello.

La voce flautata e quasi sussurrata di Buckley e il riff acustico dell’intro, nella versione pubblicata su Grace Legacy Edition (2004), traghettano questa canzone del ‘64 fuori da ogni tempo, portandone a galla la delicatezza nascosta, quella che forse nemmeno Dylan che l’ha composta era riuscito ad afferrare

2)  I know it’s over: quando una rock ballad diventa poesia

Si può soffrire per una storia d’amore finita se in fondo non era mai davvero cominciata? E a chi confessare il nostro dolore quando non sappiamo in quale altro posto andare?

Se avessimo il talento di Johnny Marr e Steven Morrisey, rispettivamente voce e chitarra degli Smiths, gruppo rock degli anni ’80, comporremmo una canzone per ammettere “I know it’s over”. Rock ballad uscita nell’86,   l’omonimo brano del gruppo britannico è un mantello di note che avvolge l’ascoltatore col suo sound vellutato, in cui il basso fa da padrone, e lo trascina nel mood di chi si rassegna sentendo «il terreno cadere sopra la propria testa».

A dispetto delle parole cupe, nella versione degli Smiths ( per quanto bellissima) non avvertiamo realmente il “crac” del cuore spezzato.

Doveva arrivare Jeff Buckley per infondere al pezzo una malinconia inedita, quasi dark, nella sua versione live ai Sony Studios di New York. L’arpeggio di chitarra in stile Hallelujah apre qui una confessione sincera sostenuta dalla voce pulita e più acuta di Buckley, una confessione poetica che arriva più diretta alle orecchie di chi ascolta.

Il finale rabbioso, quasi urlato, sembra suggerire, a differenza della versione originale, che chi canta non vuole rassegnarsi e lasciarsi andare al corso delle cose.

3) Hallelujah: l’apoteosi di Buckley

Se vi diciamo che Jeff Buckley era di Orange County a cosa pensate? Ci siamo intesi: ad O.C., il teen drama per eccellenza che tra gli altri meriti ventava una colonna sonora alternative e indie rock d’eccezione.

Punta di diamante della soundtrack e canzone simbolo dell’amore tragico Ryan/Marissa, era proprio l’Hallelujah di Buckley, canzone che non a caso è un inno solenne all’unione tanto cercata e sperata con la donna amata.

Dire di Buckley e non di Cohen che è il vero autore ( e molti non lo sanno!) non è un caso. Perché quella dell’album Grace (1994) è a tutti gli effetti un’altra canzone che ancor meglio dell’originale – cantata su un tono più grave – trasmette la spiritualità con cui viene trasfigurata l’unione fisica tra i due amanti. E’ quel ritornello sussurrato, le corde della Telecaster che suonano prepotenti e cristalline ad una ad una che ci elevano in un sublime crescendo.

E poi l’esplosione commovente della voce di Buckley nel verso più bello: «l’amore non è una marcia vittoriosa, ma una fredda e spezzata Halleluja».

Quindi ciliegina sulla torta non poteva che essere lei: Hallelujah, la canzone che più di ogni altra appartiene veramente a Buckley. Dobbiamo forse ringraziare O.C. se la nostra generazione conosce questo classico di Cohen.

O forse dobbiamo ringraziare proprio lui: Jeff Buckley, una voce angelica, “messaggera” appunto della musica dei grandi all’alba dei primi 2000. A metà strada tra Robert Plant e Nina Simone, tra semplicità e sperimentazione, tra il folk “chitarra e voce” dei nostri nonni e il punk potente dei nostri padri, la musica di Jeff sembrava davvero provenire da un altro mondo, ineffabile, etereo: non trovava definizione. Useremo perciò le parole di Bono degli U2, che disse di lui:

“Era una goccia pura in un oceano di rumore.”

 

Angelica Rocca