Uccise la compagna in seguito ad un litigio, la Corte d’Appello dimezza la pena: ecco le motivazioni e i punti critici

Redazione Attualità
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Il 15 settembre scorso una sentenza della Corte d’Appello di Firenze ha stabilito uno sconto di pena di 13 anni rispetto alla sentenza di primo grado per Tun Naj Bustos, 32enne originario del Myanmar che il 24 novembre 2018 uccise la compagna di 21 anni, di origini cinesi, strangolandola in un ostello di Firenze in cui si trovavano in vacanza.

Un così repentino cambio di orientamento è stato motivato dai giudici d’appello sulla base di circostanze che renderebbero le attenuanti generiche prevalenti rispetto alle aggravanti. In particolare: «Occorre valorizzare il profilo psicologico del comportamento dell’imputato nell’immediatezza del fatto», che, secondo le ricostruzioni, si sarebbe mostrato profondamente turbato dalla propria condotta già nei primi momenti successivi all’evento. La primissima reazione sarebbe stata, infatti, quella di chiamare i soccorsi e la polizia – un gesto, questo, che per i giudici d’appello dimostrerebbe la consapevolezza del disvalore della propria condotta da parte del giovane, diversamente da gesti di pentimento e scuse che, solitamente, tendono ad arrivare a distanza di tempo e solo a processo iniziato.

La sentenza di primo grado ed il successivo ribaltamento

Il 24 novembre 2018, Tun Naj Bustos uccideva la propria compagna (appena sposata) strangolandola nella camera di un ostello in seguito ad una lite: la vittima aveva mandato il compagno a chiedere una posticipazione del check-out, ma con risultati deludenti per la prima. Secondo la difesa, guidata dall’avvocato Francesco Stefani, si tratterebbe dell’ultima di una serie di sorprusi ed umiliazioni condotte dalla vittima nei confronti del suo cliente. Tuttavia, tali argomentazioni hanno trovato riscontro solo nelle parole dell’imputato. Un particolare motivo di frustrazione era quello della dipendenza economica di quest’ultimo dalla compagna, fatto ulteriore che si pone alla base della richiesta (avanzata dalla difesa) del riconoscimento di una circostanza attenuante della provocazione, tuttavia negata in entrambi i gradi di giudizio. E rimane fermo un punto fondamentale: nessuno costringeva il giovane alla convivenza con la vittima.

(fonte: lanazione.it)

In primo grado, svoltosi il 9 luglio 2020 con rito abbreviato (non più concesso per i casi di omicidio in seguito alla “Legge sul Codice Rosso” del 19 luglio 2019 n.69 – ma comunque applicato al caso di specie in ragione del principio del favor rei, ex art.2, comma 4, c.p.), la procura generale aveva richiesto una pena di 30 anni di reclusione per l’imputato. Poi il ribaltamento ed un primo sconto in grado d’Appello a 24 anni; infine a 16 anni. La Corte d’Appello avrebbe deciso di catalogare la componente psicologica dell’omicidio volontario in questione come dolo d’impeto, riconoscendone quindi il valore attenuante (una sorta di stato d’ira).

L’avvocato Stefani, pur ritenendosi soddisfatto del risultato, ha tuttavia annunciato il ricorso in Cassazione. Si precisa che, in media, la pena stabilita per omicidio volontario ammonta a 12,4 anni – laddove il Codice penale prevede un minimo di anni 21.

Profili di criticità della sentenza d’Appello

Una tale sentenza ha suscitato diverse reazioni negative da parte della pubblica opinione, che ritiene eccessivo lo sconto di pena operato dalla Corte di Firenze. L’ammontare della pena, tuttavia, è solo uno dei diversi profili di criticità apprezzabili in questo caso: bisogna partire da una considerazione principale, ossia la piena accettazione, da parte del reo, delle conseguenze delle proprie azioni. Tale condotta, pur meritando di essere tenuta in conto nella valutazione giuridica, è apparsa a molti come eccessivamente premiata, al punto da svilire la serietà del reato e la dignità della vittima.

Dall’altra parte ci si è chiesti, tuttavia, se 16 anni possano essere ritenuti “pochi” per una pena di reclusione.

(fonte: lanazione.it)

Un altro profilo di criticità è quello che riguarda il giudizio circa il dolo d’impeto: un orientamento giurisprudenziale affermato ritiene che, tra i vari requisiti, per la configurazione di questo tipo di elemento psicologico sia necessaria la sussistenza di un “fatto ingiusto altrui”, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale. E in ogni caso, secondo la Suprema Corte, l’attenuante in oggetto, pur non richiedendo i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, non sussiste ogni qualvolta la sproporzione fra il fatto ingiusto altrui e il reato commesso sia talmente grave e macroscopica da escludere o lo stato d’ira ovvero il nesso causale fra il fatto ingiusto e l’ira.

Il medesimo elemento psicologico è stato riconosciuto anche in un caso di omicidio scaturito da infedeltà coniugale nel quale il dolo d’impeto ha costituito risposta immediata ad uno stimolo esterno senza alcuna programmazione preventiva, per cui si è avuta una riduzione della pena in quanto l’assassino uccise per un impeto di rabbia, un’esplosione d’ira.

Ad oggi è fortemente messo in discussione dalla pubblica opinione il valore attenuante dello stato d’ira, in particolare nei casi di femminicidio. Alla base rimane sempre e comunque un problema di anacronismo tra l’evoluzione delle regole di convivenza sociale in un determinato momento storico e l’adattamento del diritto vivente a tale evoluzione.

A questo punto, non rimane che aspettare che sia la Cassazione a pronunciarsi circa l’eventualità di una revisione della pena oppure di una conferma dell’esito della sentenza.

Valeria Bonaccorso