Squid Game: un gioco pericoloso

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La società in cui viviamo fa di noi degli instancabili consumatori: il vortice di consumi in cui siamo gettati ci rende piccoli ingranaggi di una gigantesca macchina, che vorrebbe determinare – con o senza permesso -il nostro posto nel mondo. Il nostro posto come vincenti o come disperati.

E se, oltre ogni  limite, la vita stessa si trasformasse in un prodotto di cui i consumatori possono disporre?

E’ questo il limite che la serie tv sudcoreana firmata Hwang Dong-hyuk, conosciuta in tutto il mondo, ha oltrepassato, portando a chiederci fino a dove ci si può spingere per sedere al tavolo dei vincenti.

Squid game,“Il gioco del calamaro”,disponibile su Netflix dal 17 Settembre scorso, ha il record come esordio più visto sulla piattaforma streaming. Impossibile non averne sentito parlare, con oltre cento milioni di spettatori, altrettanti meme e non poche polemiche, Squid Game traccia un sentiero tortuoso all’interno del panorama artistico mondiale, prendendo le mosse dall’interesse delle opere sudcoreane per i temi della lotta di classe, del disagio economico ed esistenziale.

 Squid Game, guardie.  Fonte: Netflix

Veniamo catapultati “come per gioco” in un talent show che ospita 456 partecipanti, reclutati e scelti da una misteriosa organizzazione, sulla base di un fattore comune: la disperazione.

Un gruppo di disperati, con debiti di gioco o problemi con la giustizia,di ogni estrazione sociale, si sfidano in una serie macabra e perversa di giochi d’infanzia.Personaggi alienati, senza speranza e alternative, che agiscono mossi dall’istinto di sopravvivenza. In palio un premio in denaro.

I giochi infantili, come “un due tre stella” o il tiro alla fune, vengono trasformati in giochi mortali, in cui gran parte dei partecipanti viene uccisa nel fallire la prova. Ogni morte fa aumentare il montepremi finale, destinato al vincitore dei sei giochi, per una vincita complessiva di oltre 45 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). Naturalmente, nel senso più darwiniano del termine, al crescere della posta cresce la brutalità dei partecipanti, disposti a tutto pur di sopravvivere, vincere, cambiare vita.

Come in Parasite di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’oro alla 72° edizione del Festival di Cannes, e molte altre produzioni sudcoreane, assistiamo al delinearsi delle ciniche e spietate dinamiche che caratterizzano una nazione segnata da contrasti insanabili, dal divario sociale, dalla corruzione. Parasite è un’opera amata dalla critica e dal pubblico per quello che mostra: le conseguenze  di un sistema socio-economico che non lascia spazio, caratterizzato dalla cattiveria, che genera parassiti e alimenta un eterno ciclo dei vinti, lasciando fuori dallo schermo la speranza di una prospettiva migliore.

Quello di Squid Game è un mondo distopico – caratterizzato da colori pastello, inquadrature e ambientazioni geometriche – che accoglie un gran numero di scene splatter. Ad ogni sfida i personaggi reagiscono in modo diverso, e c’è poco spazio per un’ evoluzione morale: assistiamo per lo più al caratterizzarsi ed evolversi della massa. La massa di giocatori in tuta verde che tenta di sopravvivere, tra uno scellerato antagonismo individuale e di gruppo, aggrappandosi alle dinamiche del branco che si regge sulla regola della sopraffazione del più forte sul più debole.

Squid Game, ambientazione

L’intera macchina di Squid Game, ha il solo scopo di intrattenere i suoi spettatori nascosti, dietro uno schermo. I mandanti e i veri destinatari dei giochi sono infatti i “VIP”, persone molto ricche, dalle maschere scintillanti, che scommettono come all’ippodromo sui disperati, facendoli gareggiare in questo macabro e mortale talent show. Il solo fine è l’intrattenimento.

E’ sul finire della serie che la distanza creata tra due mondi lontani anni luce tra loro, quello dei ricchissimi e dei poverissimi si accorcia, tentando di riunirli all’insegna di una necessità comune: il divertimento. E’ il personaggio creatore del gioco a dirci che ciò che accomuna le persone senza soldi e quelle con troppi soldi è che la loro vita non è felice. All’interno dell’attuale sistema, alimentato dal debito e dalla colpa, per le dinamiche che lo caratterizzano, le uniche certezze possibili sembrano essere l’infelicità e la disperazione.

 

Squid Game, giocatore 456

Non è possibile ignorare il successo di Squid Game, come non è possibile ignorare le non poche polemiche sollevate intorno alla serie tv, che lascia perplessi sul piano etico e morale. Lo stesso autore Hwang Dong- hyuk ha atteso nove anni per vedere prodotti i nove episodi, a lungo rifiutati per il loro contenuto violento. Nonostante la serie appaia su Netflix come vietata ai minori di quattordici anni, molte sono state le emulazioni, soprattutto da parte di bambini e giovani (è solo di qualche settimana fa la notizia di un caso di violenza durante la ricreazione in una scuola elementare di Treviso).

Se l’opinione è divisa tra chi vorrebbe una censura e chi lo ritiene un rimedio controproducente, sarebbe altrettanto importante domandarsi cosa sia possibile fare per spezzare il terribile incantesimo che rende le nuove generazioni, al pari delle vecchie, consumatrici disperate e senza via d’uscita. Il vero dramma è la mancanza di alternative, l’assenza di una prospettiva realmente sovversiva e nuova anche e soprattutto all’interno del panorama artistico. Un’alternativa capace di innescare un sostanziale cambiamento, di conservare il suo potere rivoluzionario, sentinella delle domande degli uomini e non dei bisogni dei consumatori. 

                                                                                                           Martina Violante

 

Articolo pubblicato il 28/10/2021 nell’inserto Noi Magazine della Gazzetta del Sud