Vittimizzazione secondaria: la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non avere tutelato una vittima di stupro

Redazione Attualità
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L’Italia non ha rispettato la “dignità della ragazza vittima di violenza”. È quanto si legge nella sentenza  emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e datata 27 maggio. I fatti a cui quest’ultima si riferisce sono quelli relativi al cosiddetto “stupro di Fortezza da Basso”. Ma ad essere condannati non sono stati i ragazzi materialmente autori della violenza bensì le motivazioni adoperate dai giudici della Corte d’Appello di Firenze. Questi, si legge nella sentenza, hanno usato “linguaggi e argomenti ricchi di pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e che possono costituire un ostacolo alla tutela effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere”.

La vicenda di Fortezza da Basso

La sera del 26 luglio del 2008 a Firenze, in una macchina parcheggiata all’esterno della Fortezza da Basso viene consumata una violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza allora appena 22enne. La denuncia viene presentata quattro giorni dopo e coinvolge sette ragazzi di età compresa tra i 20 e i 25 anni. Successivamente agli accertamenti medici dovuti e le corrispettive indagini, gli imputati vengono arrestati. A questi toccano un mese di carcere e più di due mesi ai domiciliari. Il processo durerà poco meno di cinque anni e si concluderà, nel gennaio del 2013, con una sentenza di condanna per sei dei sette ragazzi.

 

I fatti come presentati nella sentenza di primo grado, fonte: ilpost

 

I sei ragazzi vengono dunque condannati in primo grado a quattro anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale di gruppo aggravata dal fatto che la vittima fosse in quel momento incapace di intendere e di volere poiché ubriaca. I difensori degli imputati, però, ricorrono in appello e qui la Corte d’Appello di Firenze, nel marzo del 2015, rovescia completamente la sentenza in primo grado: i sei vengono infatti assolti in formula piena poiché “il fatto non sussiste”. 

Le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Firenze

La sentenza non mancò di suscitare le proteste e l’indignazione da parte dell’opinione pubblica, specialmente ove si consideri che i termini per l’impugnazione scaddero senza che la Procura generale di Firenze ricorresse in Cassazione. La sentenza divenne quindi definitiva. A finire nell’occhio del ciclone furono le motivazioni addotte dai giudici fiorentini che vennero pubblicate dopo il 18 luglio dello stesso anno, dopo cioè la scadenza del termine di impugnazione. Dalle quattro pagine delle motivazioni si evince come i giudici avessero ritenuto dubbia la credibilità della ragazza. Dubbi derivanti dalle contraddizioni, nella ricostruzione dei fatti, provenienti dalla ragazza stessa ma soprattutto dallo stile di vita della stessa. La ragazza, si legge, non sarebbe stata in uno stato di inferiorità psichica essendo “un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso disinibito, creativo, in grado gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta”. Per quanto il fatto fosse “increscioso”, per i giudici la denuncia della ragazza è stato un tentativo, un modo, per cancellare quello che lei stessa reputava un “suo discutibile momento di debolezza e fragilità” testimoniato dal fatto che l’iniziativa di gruppo non fosse stata da lei “ostacolata”. Una motivazione che è stata definita dal difensore della ragazza come “pregna di giudizi morali” poiché focalizzata sullo stile di vita della ragazza definito a sua volta come “non lineare”. La giovane avrebbe infatti avuto più di un rapporto occasionale, oltre che un rapporto di convivenza e uno omossessuale. Comportamenti che avrebbe dato adito ai ragazzi di pensare che ella fosse consenziente.

Manifestanti in piazza a sostegno dei diritti delle donne, fonte: ilpost

Il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo

Esauriti i ricorsi interni, la ragazza, assistita dai suoi legali, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. Ad essere imputati stavolta però non erano i ragazzi, innocenti per la giustizia italiana, ma i giudici stessi. E ad oggi, dopo 6 anni dalla sentenza della Corte d’Appello di Firenze, si arriva a una svolta quanto mai storica. La Corte Europea ha condannato l’Italia per non avere tutelato la donna dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”. Cioè nell’aver trasferito parte, se non totalmente, la responsabilità della violenza subita, su chi ne è stata vittima. In particolare la sentenza della Corte d’Appello di Firenze ha violato l’articolo 8 della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). L’articolo in questione tutela il diritto al rispetto della vita privata a familiare. Il linguaggio e le argomentazioni adoperate nella stessa sono infatti carichi di “pregiudizi sul ruolo delle donne esistenti nella società italiana”. In particolare sono stati definiti “deplorevoli” e “ingiustificati” i riferimenti alla bisessualità della donna, la sua vita sessuale e la definizione della stessa come “vita non lineare”. Inoltre, oltre ad avere violato l’articolo 8 della CEDU, la sentenza della Corte d’Appello di Firenze è in contrasto anche con l’articolo 54 della Convenzione di Istanbul ove si legge che in qualsiasi procedimento civile o penale vada sempre garantito il fatto che le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima devono essere “ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie”.

L’Italia sarà dunque costretta a risarcire 12 mila euro alla ragazza per danni morali, oltre a 1.600 euro per le spese legali. Una magra consolazione che si spera però possa costituire un precedente da cui, da ora in avanti, i giudici italiani imparino a tenersi a debita distanza da qualsiasi valutazione frutto di luoghi comuni e bigottismo.

Filippo Giletto