USA: crescita economica grazie a Trump? Tutti i dati (reali) a confronto

Redazione Attualità
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Il 20 gennaio del 2017, Donald J. Trump veniva eletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Il discorso di insediamento, presagii fin da subito, l’inizio di un periodo istituzionale antitetico all’era Obamiana. Il patriottismo trumpiano alimentava la frustrazione del popolo americano – stanco di farsi abbindolare dai perbenismi democratici e bramoso di una svolta epocale – attribuendo le colpe del mancato progresso statunitense all’inadeguatezza del governo, considerato poco sensibile alle vere esigenze del Paese.

Per conquistare la fiducia degli elettori, Trump ricorse a uno slogan risonante e provocatorio, “Make America Great Again”, già usato nelle campagne presidenziali di Ronald Reagan nel 1980. Quasi a voler sottolineare la necessità di un cambiamento epocale, che si sarebbe potuto realizzare solo attraverso un rivoluzionario piano di promesse politico-istituzionali:

agevolazioni fiscali e riduzione delle tasse unite all’aumento di posti di lavoro; 

processo di re-industrializzazione del Paese per internalizzare la produzione interna e non delocalizzare nei paesi esteri;

-costruzione di un muro di frontiera tra Stati Uniti e Messico per bloccare il passaggio di migranti provenienti da Honduras, Guatemala e altri Paesi dell’America latina.

Dopo 4 lunghi anni di Presidenza Trump, è arrivato il momento di tirare le somme, chiedendosi se la politica istituzionale che ha avvelenato il confronto politico e diviso il Paese in due fazioni contrapposte, sia riuscita a conseguire risultati economici interni inopinabili e all’altezza delle promesse assunte in fase di campagna elettorale. Cerchiamo di capire insieme quali sono stati realmente – dati alla mano – i risultati conseguiti da Trump, provando a fornire un primo giudizio storico.

Il conservatorismo trumpiano

Da un’analisi politico-economica, è emerso un’impronta nostalgica del conservatorismo statunitense della reaganomics – insieme delle politiche economiche adottate dal sopracitato Presidente Ronald Reagan tra 1981 e il 1989 – fondata su alcuni pilastri fondamentali: riduzione della regolamentazione dei mercati, rafforzamento dell’offerta monetaria, riduzione delle tasse e forti contenimenti della spesa pubblica.

Il confronto col passato rende però obbligatoria una oculata precisazione. Mentre Reagan fece ricorso a politiche di stampo protezionistico per fronteggiare la concorrenza giapponese in un momento di particolare fragilità finanziaria (elevato livello di inflazione e forte tasso di disoccupazione), Trump ereditò un Paese tutt’altro che in ginocchio, visto che l’ultimo triennio obamiano fu caratterizzato da una crescita del PIL pari al 2.5% annuo, ridotta all’1.6% per i due mandati, tenendo conto però del brusco -2.5% del 2009, registrato in seguito all’enorme crisi finanziaria del 2007-2008.

Ciò nonostante, durante la Presidenza Trump sono stati registrati diversi stimoli che hanno contribuito alla crescita economica, alla diminuzione della disoccupazione e all’aumento dei redditi medi (spoiler: risultati privi di alcun valore, se non comparati con altre variabili economiche correlate).

Primi fra tutti, i tagli alle tasse sia sui redditi delle persone che sull’impresa – la corporate tax è stata diminuita dal 35% al 21% – si sono rivelati un importante incentivo fiscale. Seguiti da un chimerico piano di massicci investimenti di ricostruzione industriale che malgrado non sia mai stato realizzato, ha innalzato le aspettative contribuendo a raggiungere uno stimolo in bilancio.  La deregulation, ottenuta smantellando i provvedimenti di Obama in materia di tutela ambientale e finanziaria, ha rappresentato senza dubbio un altro stimolo indiretto per la crescita del Paese. Come ultimo ingrediente economico, in una economia già in crescita, i bassi tassi di interesse, concessi dalla FED su richiesta di Trump, hanno ridotto sensibilmente il costo di accesso al credito, stimolando ulteriormente gli investimenti. Per intenderci, la FED ha agito con manovre simili alle misure del “quantitative easing“ adottate dalla BCE ogni qualvolta si presenti un momento di instabilità finanziaria – es. scoppio della pandemia nel Marzo del 2020 – con l’obiettivo di immettere liquidità nel mercato e rendere più conveniente per le banche prestare denaro e più facile fare credito ai cittadini e alle imprese.

Con l’avvento di Trump, il PIL statunitense ha continuato a crescere, mantenendo l’andamento costante del 2.5%, come nell’ultimo triennio dell’amministrazione Obama. I risultati più evidenti sono stati registrati su occupazione e redditi:

  • Il tasso di disoccupazione è diminuito, passando dal 4.7% (gennaio 2017) al valore minimo del 3.5% (gennaio 2019). Gran parte del lavoro iniziale, fu avviato dal predecessore Obama che salì a potere nel 2009 durante il periodo storico della “Grande Recessione”, dovendo fare i conti con un tasso di occupazione elevatissimo pari al 7.8% (gennaio 2009) che raggiunse il picco massimo del 10% nell’ottobre dello stesso anno, salvo poi diminuire al 4.7% nel dicembre del 2016.

 

Civilian unemployment rate – Graphics for Economic News Releases. https://www.bls.gov/charts/employment-situation/civilian-unemployment-rate.htm

 

  • L’impatto sui redditi è stato fisiologico, con particolare riferimento ai redditi medi per nucleo familiare è stata registrata una crescita del 7,75% tra il 2017 e il 2019, passando rispettivamente da 63.761 a 68.703 dollari annui. Anche in questo caso, la crescita segue – più o meno – il trend del +5.7% del periodo obamiano, dove il livello dei redditi nell’ultimo triennio è cresciuto a ritmi impressionanti pari all’8.44%, dopo aver subito un crollo costante tra il 2009 e il 2012.
Real Median Household Income in the United States. https://fred.stlouisfed.org/series/MEHOINUSA672N

 

L’aumento del deficit

I risultati inopinabili, conseguiti dalla Presidenza Trump, necessitano tuttavia di altri parametri per poter delineare un quadro economico di riferimento. Altrimenti si rischierebbe di scattare una foto opaca e poca nitida del paesaggio economico, che non considera anche le esternalità di una politica fiscale così estremamente espansiva. La combo tagli alle tasse + elevata spesa pubblica ha provocato l’inevitabile ampliamento della forbice tra gettito e uscite.

In altre parole, con Trump il deficit – situazione finanziaria di uno Stato che si verifica quando le uscite superano le entrate – è cresciuto a dismisura rispetto all’ultimo triennio obamiano (il 3.4% del PIL nel 2017, il 3.8% nel 2018 e il 4.6% nel 2019, con stime del 14.9% per il 2020 a causa dell’emergenza sanitaria, secondo il Congressional Budget Office).

Monthly Budget Review: Summary for Fiscal Year 2020. https://www.cbo.gov/system/files/2020-11/56746-MBR.pdf

Tuttavia, all’aumento del deficit non è corrisposta una crescita del PIL così rilevante da poter giustificare la radicalità di tali manovre. Gli stessi parametri a cui Trump aveva fatto ricorso nel 2016 per evidenziare l’insalubrità degli Usa – deficit di bilancio, deficit commerciale, indebitamento pubblico e forza del manifatturiero – sono peggiorati durante la sua amministrazione.

Il deficit esterno ha continuato a crescere, raggiungendo uno dei passivi commerciali più alti della storia degli USA, 872miliardi di dollari nel 2018, – il passivo commerciale rappresenta il risultato (negativo) della bilancia commerciale di uno Stato, ottenuto dalla differenza fra il valore complessivo delle esportazioni e delle importazioni di merci realizzate da un’economia nei confronti del resto del mondo, in un arco di tempo specifico (mese, trimestre o anno)- un risultato senza eguali nella storia recente degli Stati Uniti, con percentuali di superiorità pari al 20% rispetto ai passivi più alti dell’era obamiana.

Il debito pubblico – senza tenere in considerazione l’avvento dell’emergenza sanitaria, tristemente nota come Covid-19 – non ha riscontrato particolari miglioramenti, ma ha continuato a crescere, pur non essendo pienamente “giustificato” dal fantastico piano di re-industrializzazione del Paese, visto che non è mai stato portato a compimento.

La promessa del rilancio del settore manifatturiero non è stata mantenuta, e si è rilevata per ciò che era realmente fin dall’inizio: un mero strumento di propaganda elettorale. Nonostante i pesanti dazi sferrati da Trump all’industria cinese, gli Stati Uniti hanno mantenuto una forte interdipendenza dalla Cina che non gli ha concesso di conseguire il tanto ambito rilancio del settore manifatturiero; il numero degli occupati in tale settore è cresciuto ma non in modo significativo rispetto all’ultimo triennio obamiano (2014-2017 +2,32% Obama vs 2017-2020 +3,84% Trump, anche in questo caso, come nei precedenti confronti, si tiene in considerazione solo il mese di gennaio per il 2020 e non l’intero ultimo anno della Presidenza Trump ).

 

All Employees, Manufacturing (MANEMP). https://fred.stlouisfed.org/series/MANEMP

 

Vi è stata una redistribuzione della ricchezza ?

Dopo aver evidenziato le esternalità di una politica fiscale così espansiva, proviamo a capire se vi sono stati effetti redistributivi di crescita economica. Chiediamoci quindi, se il governo è stato in grado di coinvolgere nel processo di crescita anche gli individui e le famiglie meno abbienti, ovvero con redditi sensibilmente più bassi.

Il salario minimo federale nel 2020 è stato pari a 7.25 dollari, quasi il 40% in meno rispetto a 50 anni fa. Malgrado le politiche industriali di investimento siano la conditio sine qua non per aumentare la produttività e di conseguenza i redditi medi, è fondamentale che il Governo sia capace di garantire una contrattazione sana di equa distribuzione della ricchezza del Paese. Cosa che Trump non hai mai fatto. Mentre Obama aveva aumentato il salario minimo dei dipendenti federali, Trump si è dichiarato da subito contrario.

Donald ha lottato con tutte le sue forze per contrastare l’estensione della sanità pubblica, provando a distruggere sul nascere i frutti del raccolto di ciò che aveva seminato il suo predecessore: nel maggio del 2017, da buon repubblicano ortodosso promosse l’abrogazione dell’Obamacare – riforma sanitaria approvata nel 2010, che ha migliorato uno degli aspetti più scandalosi degli Stati Uniti, ovvero la massa di persone prive di assicurazione sanitaria, contribuendo al miglioramento della qualità assistenziale con un sistema di aiuti pubblici ai milioni di statunitensi che allora non godevano di alcuna forma di assistenza medica – senza tuttavia riuscire nell’intento. A giugno, Trump sferrò un secondo attacco attraverso la richiesta di abolizione della riforma, rivolta alla Corte Suprema. Ammonterebbe a circa 7 milioni, il numero di persone che dal 2016 hanno perso la propria assicurazione sanitaria a causa di tali manovre oltraggiose, passando dal 10,9% al 13,7%.

Il neoeletto Presidente Joe Biden, durante il periodo di propaganda elettorale, ha promesso di proteggere l’assistenza sanitaria dei cittadini statunitensi (Obamacare) come se stesse proteggendo la sua famiglia.

A lui il compito di continuare a far crescere l’economia, garantendo una adeguata distribuzione della ricchezza soprattutto tra le fasce più povere della popolazione.

Marco Bavastrelli