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#OttobreRosa. Il ruolo della psiconcologia per i familiari e la testimonianza di una figlia

Scienza & Salute
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“In salute e in malattia, nella gioia e nel dolore”, quando sentiamo queste parole ci viene in mente un matrimonio, un legame di coppia. Quando si hanno dei figli, tali condizioni si estendono anche a loro: genitori e figli sono legati dal bene e dal male.

Che succede ai figli quando si ritrovano ad affrontare la malattia di un genitore? Cercheremo di rispondere a tale quesito con delle riflessioni tecniche di carattere psicologico e, a seguire, con una testimonianza diretta.

L’argomento è delicatissimo. La trattazione della tematica viene sviluppata sulle basi delle varie ricerche scientifiche. Inoltre, bisogna sempre considerare l’eterogeneità delle varie condizioni mediche, psicologiche, familiari, personali e socioeconomiche di ciascuno: ogni persona ed ogni sistema familiare affrontano diversamente una stessa condizione, anche se (molto spesso) i meccanismi di base che s’innescano possono essere sempre gli stessi.

Ovviamente si parla maggiormente della persona a cui è stata fatta la diagnosi (in questo caso, parliamo di tumore al seno) ed è fondamentale che segua un percorso psicologico per affrontare il durante e il post malattia. Cosa buona e giusta. Spesso però si sottovaluta la gestione di tutto ciò con i figli.

Fondamentale è il dialogo con i propri figli riguardo la malattia del genitore, ciò consente loro di capire esattamente cosa sta accadendo e di rispondere a loro eventuali dubbi. Accogliere la loro emotività gli fa capire che i genitori ci sono e che il loro “accudimento” (fisico e relazionale) non verrà meno, sarà diverso.

Con i bambini più piccoli dire la verità è necessario per non far sviluppare in loro un pensiero magico, il quale li porta spesso (in caso di mancate informazioni) ad addossarsi le colpe degli eventi negativi. Ciò può portare il piccolo a vivere stati d’ansia o depressivi, sensi di colpa infondati e a chiudersi in se stesso. Anche se può sembrare drastico, non bisogna nascondere l’utilizzo di parole forti (ad esempio “tumore”, “cancro”, “cure mediche” e “morte”): adattare la spiegazione di tali termini in base all’età del bambino sì, nasconderli sotto il tappeto no.

I bambini possono reagire alla notizia del tumore con l’adattamento, con il rifiuto, con la negazione o con l’isolamento: tutte strategie atte a sopravvivere al forte dolore che provoca vedere i propri “eroi” cadere nella fragilità umanità. Risulta fortemente consigliato far seguire  ai piccoli un percorso psicologico, con un professionista. Spesso i genitori non sono abbastanza lucidi per supportare i figli in questa fase, oppure non hanno strumenti adatti per farlo. In altri casi ancora, è possibile stabilire degli incontri con lo/a Psicologo/a solo con i genitori per prepararli sul come comunicare ed agire con i bambini.

Più complicato nel caso si abbiano figli adolescenti.

I ragazzi cognitivamente comprendono già come gli adulti, ma emotivamente no. L’adolescenza è momento di ribellione e di distacco dal nucleo familiare. Ma, quando un genitore si ammala, nella maggior parte dei casi usa dei meccanismi di difesa molto massici: per nascondere o rimuovere la propria aggressività o sofferenza, potrebbero apparire distaccati, freddi, indifferenti alla situazione. Il dolore e la sofferenza degli adolescenti può manifestarsi con depressione, ansia, isolamento, autolesionismo, sintomi psicosomatici, disturbi del comportamento alimentare, disturbi del sonno, disinvestimento scolastico, messa in atto di comportamenti a rischio.

L’adolescente, che fisiologicamente cerca il distacco dalla famiglia, con una diagnosi grave di uno dei genitori è come se tornasse indietro. Ciò lo porta a sperimentare rabbia per questo (e sensi di colpa e di vergogna per provare rabbia verso i genitori) e allo stesso tempo anche un senso di responsabilità maggiore rispetto a quello solitamente richiesto ai suoi coetanei. Sarebbe ottimale concedergli del tempo per sé e per la socializzazione con i suoi coetanei: ciò gli consentirà di non sentirsi diverso rispetto agli altri.

Particolare, nel caso di una mamma con diagnosi di tumore al seno, è la percezione della figlia adolescente femmina.

La ragazza, mentre inizia ad osservare i cambiamenti del proprio corpo e a vivere la propria sessualità, si ritrova a fare i conti con il tumore al seno della madre. Esso risulta doppia minaccia per la ragazza: minaccia in quanto familiarità genetica e minaccia in quanto donna. Scoprire di poter perdere la femminilità (in un momento in cui la si sta sviluppando) può essere motivo di delusione, tristezza, insicurezza e paura. Il corpo della figlia cambia in quanto adolescente, quello della madre cambia in quanto persona malata. La doppia faccia del cambiamento fisico (quello fisiologico e positivo e quello drammatico e negativo) porta la ragazza a vivere un forte senso di confusione ed ambiguità.

Parlare con sincerità

Parlare con sincerità e far capire che ciò può essere un motivo di controllo costante e prevenzione. Quindi “sfruttare” la malattia della madre a proprio vantaggio in termini di conoscenza e di tempistica. Ciò serve a dare un messaggio di speranza alla ragazza, senza terrorizzarla a priori inutilmente.

Anche con i figli adolescenti, risulta fortemente consigliato un percorso psicologico. Con delicatezza e sincerità gli si potrebbe sottolineare che può essere un bene per la propria crescita ,senza contrastare le sue necessità. L’importante è far capire al/alla ragazzo/a che non lo si considera come un pacco da portare da casa allo specialista, ma come una piccola persona dotata di emozioni e pensieri propri che però necessita di un aiuto specifico.
Questo è ciò che ci dice la scienza. Adesso lasciamo lo spazio alla testimonianza diretta di una ragazza, figlia adolescente di una madre con tumore al seno.

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Essere infallibili non significa non cadere, ma riuscire a rialzarsi

“Cresciamo con la convinzione che i nostri genitori siano indistruttibili, poi un giorno ti dicono che tua madre sta male e il mondo si trasforma.

Diagnosticarono a mia madre un tumore alla mammella nell’anno della mia terza media e chiaramente non ero pronta, non lo si è mai per queste cose.

Mia sorella aveva solo otto anni, quindi mi toccò fare la figlia grande e responsabile, quando io avrei voluto correre in soffitta a recuperare il mio orsacchiotto preferito e piangere fino alla mattina seguente.

Il ricordo più nitido di quella settimana è sicuramente la paura che mia madre morisse e, in fondo, diciamocelo: aveva paura anche lei.

Quando tua madre si ammala di tumore, sono tante le cose che, inevitabilmente, cambiano.

Cambia il tuo modo di raccontare, di cucinare, cambiano le vacanze, cambiano soprattutto le famiglie.

Esistono equilibri sottili che sembrano catene; tu non lo sai ma, quando arriva il vento a scuoterle come foglie, le catene si spezzano.

Sono diventata donna a dodici anni, non per il ciclo mestruale, ma per la necessità di prendermi cura di chi mi stava accanto.

Mia madre si è scoperta umana, con le sue fragilità, con la necessità di chiedere aiuto, con le crisi di panico nei supermercati e nei luoghi affollati.

Così papa ha imparato a fare la spesa, non quella occasionale, ma la spesa settimanale e giornaliera; ha imparato i nomi degli assorbenti e le diciture sulle boccette dello shampoo che gli uomini non guardano mai.

Mia sorella, lei ha imparato a leggere fra le righe, prima di ogni cosa, perché i bambini vengono informati sempre per ultimi. Ha imparato poi ad essere grande, a spiegare che così nessuno l’avrebbe protetta, che non sapere era come non essere: non essere figlia, sorella, parte della famiglia.

Nello stipetto della cucina, tra i bicchieri che usiamo per gli ospiti, sono comparse delle scatole: tra queste, quelle di Nolvadex e di Decapeptyl.

E nel calendario, lì sono comparsi segni di penna per ogni notte che avremmo trascorso dagli zii quando mamma sarebbe stata radioattiva.

Quando tua madre si ammala sono tante le cose che, inevitabilmente, cambiano e forse, più di tutto, cambia il tempo per parlare.

Cambia il tempo dei silenzi che spesso durano ore, che a volte durano anni.

Ho capito, così, come stare bene senza dire neanche una parola, come abbracciare un corpo tremante ringraziando per il solo fatto di poter sentire quel tremore.

Ho capito come attendere giorni migliori, come festeggiare piccoli traguardi: una giornata insieme, la fine delle cure, il raggiungimento dei cinque anni dalla diagnosi.

Ho capito che essere infallibili non significava non cadere, ma rialzarsi con le proprie forze e con quelle di chi ti ama.

Così mia madre scriveva il significato di “supereroina” sul mio vocabolario, mentre continuavamo a camminare nelle strade del silenzio, mano nella mano.

Oggi camminiamo ancora, ma c’è una novità: mamma ha imparato di nuovo a fare la spesa

Chiara Fraumeni, Serena Piraino