Negli USA continua la bufera: dopo 17 anni ricominciano le condanne a morte

Redazione Attualità
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Gli Stati Uniti d’America, prima potenza mondiale e punto di riferimento della cultura occidentale dal punto di vista dell’innovazione tecnologica e dello stile di vita, continuano a essere teatro di avvenimenti e scelte destinate a fare discutere. Sotto l’amministrazione Trump gli USA sono spesso saliti agli onori della cronaca per la mancanza di tutela delle classi più deboli, delle categorie più disagiate o sottorappresentate e per l’assenza di una cooperazione internazionale effettivamente costruttiva. È degli scorsi giorni l’ennesima notizia che fa guardare con sconforto aldilà dell’Atlantico. Dopo le proteste degli scorsi mesi a sostegno delle vite degli afroamericani contro le ripetute violenze perpetrate delle forze dell’ordine e le centinaia di migliaia di vite spezzate dal covid-19, ecco che il tema del diritto alla vita torna prepotentemente al centro del dibattito pubblico.

Dopo 17 anni la Corte Suprema americana ha dato l’ok alla ripresa delle esecuzioni federali. Il massimo tribunale federale si è di fatto allineato alla volontà dell’amministrazione Trump che già l’anno scorso, per voce del Procuratore generale William Barr, aveva annunciato l’intenzione di rompere questa moratoria, d’altronde mai scritta, e riprendere le esecuzioni capitali di persone già condannate dai tribunali federali.

Una prassi che non trovava più applicazione dal 2003 e che fortunatamente rimane ormai in vigore solo in alcuni Stati. Il massimo giudice federale ha annullato un precedente ordine della giudice distrettuale Tanya Chutkan, che aveva posticipato le esecuzioni per consentire un ricorso sull’iniezione letale, dando di fatto il via libera alle condanne di Daniel Lewis Lee, Wesley Ira Purkey e Dustin Lee Honken. L’ingiunzione era stata emessa affinché il tribunale esaminasse il ricorso presentato da quattro detenuti nel braccio della morte contro il nuovo protocollo per le esecuzione federali, che a detta degli stessi, violerebbe l’ottavo emendamento della costituzione che vieta le punizioni crudeli. I farmaci usati produrrebbero sensazioni di annegamento e asfissia, causando dolore estremo, terrore e panico. Mentre invece, in teoria, la morte di Stato dovrebbe essere asettica. Ma il dipartimento di Giustizia aveva subito annunciato un nuovo appello. Appello che è stato raccolto dalla Corte Suprema.

Quella di Daniel Lewis Lee, suprematista bianco colpevole di avere partecipato al massacro di una famiglia di origine ebraica nel 1996 nella città di Russelville, è stata la prima esecuzione federale in 17 anni. A nulla sono valse le opposizioni da parte di Earlene Peterson, madre e nonna di due delle vittime della strage. La donna, che pure è una sostenitrice del presidente Trump, per anni si è opposta all’omicidio di Stato, continuando a ripetere che in questa maniera il ricordo dei familiari sarebbe stato infangato. Opposizione che si è tramutata in autentici tentativi di boicottaggio della condanna: prima facendo slittare l’esecuzione prevista a dicembre 2019, poi bloccandola affermando di non poter assistere all’esecuzione per paura dell’epidemia. Il giudice ha però stabilito che assistere alla morte di un condannato è una possibilità, ma non un diritto dei parenti delle vittime, dando così il via libera all’esecuzione.

Ad oggi sembra surreale continuare a parlare di condanna a morte, una pratica che rimane legale in circa 76 paesi del mondo, ma di questi, e deve riflettere, gli Stati Uniti sono l’unico paese occidentale.

Filippo Giletto