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Cecità: la necessità di una guida nel pieno di una pandemia

Redazione Recensioni
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Film
cecità film lettura recensione
Voto UVM: 5/5 libro; 4/5 film

“Ciechi che, pur vedendo, non vedono”

Nel 1995 José Saramago, Nobel per la Letteratura, scrisse un romanzo che poi fu reso anche film: il titolo originale “Ensaio sobre a Cegueira” non sembrava poi così accattivante, così si è scelto di ridurlo a Cecità (in inglese Blindess).

Josè Saramago

 

Ambientato in una città senza nome e in un periodo senza data, l’autore ci rende spettatori e partecipanti, di uno scenario complesso.

Il tutto comincia all’improvviso, in pieno traffico cittadino, coinvolgendo un uomo qualunque: questo viene colpito da una cecità particolare che non lascia segno; “Non le riscontro alcuna lesione, i suoi occhi sono perfetti” sentiremo dire al medico, ma questo mal bianco si dimostrerà essere una malattia molto contagiosa, dalla causa sconosciuta che colpirà a ciel sereno una società impreparata (non era il COVID-19, ma si, è perfetto per l’attuale pandemia).

Non abbiamo nomi, solo dei “titoli” per descrivere i personaggi: scelta curiosa, ma sicuramente abile; la consideriamo come un espediente per dare spazio al lettore, per riproporsi in chi vuole.  Attraverso i personaggi, viene espressa la criticità della risposta umana all’incertezza e alla paura: c’è chi vorrebbe trarre vantaggio dalla sventura altrui come il ladro di automobili, che deruberà il primo cieco non appena ne avrà la possibilità, e chi come la moglie del medico deve tenere le redini della situazione.

Ma poco importa, finiranno tutti nello stesso posto e saranno queste “etichette” a stabilirne atteggiamenti e movimenti.

In tutto ciò, le forze dell’ordine, che al caro José non dovevano andare molto a genio, vengono condannate, descritte come prive di intelligenza ma piene di paura. Talmente tanta da decidere di portare i malati in un ex manicomio.

Ex Manicomio

Lo scenario si sposta in una struttura dismessa, priva dei beni essenziali e soprattutto priva di umanità.

Prime persone messe in quarantena, fonte: cinematographe.it

Lo descrive perfettamente, in maniera cruda e attraverso gli occhi dell’unica donna che ci vede, la moglie del medico: “Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali”.

Il film le ha dato un volto: bionda e candida, sicuramente non una scelta casuale; man mano che la situazione peggiora e che l’umanità si mostra sempre più fragile , lei deve resistere, ma inevitabilmente la sua immagine ne risente.

Nessuno la vede, ma noi si. Come se ci aspettassimo che l’unica donna non cieca, non possa avere i piedi sporchi. Invece lei li ha, si deteriorerà fuori pur di non perdere quella luce che ha dentro. Come a voler dimostrare quanto siano inutili bellezza ed eleganza se si è vuoti dentro. Banale penserete, invece no.

Julianne Moore, fonte: cinematographe.it

All’interno del manicomio si ricreerà una società rudimentale, in cui il più forte prende l’unica cosa che può: il cibo. E si fa pagare con le uniche cose che gli altri hanno: beni materiali (per quanto sia possibile in quella situazione). E quando questi non bastano, vorrà di più: “dateci le donne”, così da prendere anche quello che “di materiale” non è.

Ecco che l’equilibrio si rompe, Saramago non si risparmia e sottolinea l’indifferenza che soffoca la speranza: dalle continue richieste di aiuto e di umanità non si ottiene nessuna risposta.

Né dalle autorità, né da quelli che possiamo considerare “pari” dei nostri protagonisti. Grida che nascondono il silenzio e un candore, che coprendo gli occhi nasconde la brutalità della scena. Brutalità che si vedrà anche fuori, la città diventa il nuovo scenario.

Città

“E’ una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli”: nonostante sembri un post scritto adesso su un social, evidenzia le crepe della società orfana di nome e di epoca descritta nel romanzo.

E si… crepe sempre esistite e adesso più evidenti che mai.

Tutti ciechi ed affamati, tutti impauriti e arrabbiati. Tranne la moglie del medico, lei non può permetterselo. Deve fare tutto ciò che può per la sua nuova famiglia, i cui membri (marito escluso) non l’avevano letteralmente mai vista, ma che si fidavano ciecamente (scusate il gioco di parole) di lei.

fonte: movieplayer.it

Madre, sorella, la loro e la nostra guida. Azzarderei che era l’unica a non avere quel bagliore negli occhi, perché era l’unica ad averlo nel cuore e nella mente. E anche quello – in tal caso fortunatamente era contagioso.

Ma come a voler sottolineare ancora l’indifferenza degli uomini, dei pari soprattutto, l’autore inserisce una figura: quella del cane delle lacrime. Non si infetta, non è contagioso ma ha solo bisogno di amore. Lui supporta la donna, la segue, le fa compagnia, la difende e creerà un legame che non sarà possibile dissolvere.

In cecità non c’è niente che non abbiamo già visto, anzi, è tutto descritto alla perfezione. Ovviamente amplificato, con una sintassi molto particolare, scenari cupi e dettagli raccapriccianti.

Ma con molta verità.

Non si parla di profezie e complotti: anche lì le autorità erano impreparate. Né di eroi, ma di semplici combattenti; non si parla di ricchi e poveri, ma di pari.

Cosa ci insegna questo ? Non lo sappiamo con certezza ma ci dà speranza laddove serve.

La ragazza con gli occhiali scuri (senza occhiali in questa scena)- fonte: lafabricadeisogni.it

La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.”

Barbara Granata