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Odi et amo Messina, una casa che sta stretta

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Se mi venisse chiesto come definirei la terra di cui sono originaria, la Sicilia, unitamente alla mia città natale, cioè Messina, risponderei proprio citando i versi di una canzone popolare abruzzese che nell’immaginario collettivo si attribuisce di solito alla versione più nota rivisitata da Modugnoio vado via. Amara terra mia, amara e bella. Ho sempre interpretato queste parole un po’ come un appello, un composto grido di denuncia di un fenomeno che coinvolge tutti coloro che non si sentono più rappresentati dal luogo in cui si è nati e cresciuti e dove per natura si tenderebbe a restare. Può un luogo rivelarsi amaro e bello allo stesso tempo? Se sì, perché?

©RobertoInterdonato, libreria di Heidelberg, 2019

In effetti può sembrare paradossale, eppure è indice di ciò che riguarda una realtà, quella del sud e di Messina, che attanaglia centinaia di cittadini decisi a lasciarsela alle spalle, per costruire più dignitosamente la propria vita altrove. Ormai non se ne fa mistero, e i telegiornali, i programmi televisivi e le testate giornalistiche nazionali, al meridione e al settentrione, ne parlano frequentemente. Ognuno dice la sua, tra polemiche, punti di vista, giudizi, critiche più o meno costruttive. Ciò che al di là di tutto e senza dubbio non è edificante è stare in silenzio. Occorre riflettere, e non smettere mai di confrontarsi, sperando di smuovere le coscienze e scuotere gli animi di chi ha più potere rispetto all’autrice di questo articolo, per contribuire a cambiare le cose.

Sulla scia, tra l’altro non programmata, di due precedenti editoriali redatti dai miei colleghi Alessio Gugliotta e Giulia Greco, proseguo la digressione sul tema, come fosse un fil rouge, che evidentemente non capita a caso. Questo dibattere comune è sintomo di un disagio esteso in modo capillare nella generazione dei cosiddetti millennials. Senza alcuna intenzione di sfociare nella retorica, è arrivato anche per me il momento giusto di pubblicare i pensieri che annoto, raccolgo e conservo da quattro anni, e che sento il dovere morale di pubblicare in occasione del mio ultimo editoriale: una personalissima lettera d’addio che indirizzo a chiunque nelle mie parole possa ritrovarsi traendone ispirazione e conforto, ma anche a chi in tutta libertà voglia assumere una posizione diversa e contraria, che invito a manifestare e motivare. Dare risalto ad argomenti che risulteranno “scomodi” per alcuni non mi turba.

Un pretesto che mi ha fornito lo spunto per questo editoriale è stato l’argomento scelto per la seconda edizione del TEDxCapoPeloro dal titolo “Casa: Equilibrio tra radici e desideri”. Essendo molto sensibile alla tematica, ho voluto partecipare con motivazione all’evento, che si è tenuto il 23 novembre scorso. La locandina reca un approfondimento: “Cosa vuol dire casa nel 2019? Cosa vuol dire casa quando si vive in un posto dove è più facile partire anziché restare? La casa come luogo degli affetti, del quotidiano e del lavoro. La casa come elemento naturale da rispettare, preservare e proteggere. Una casa che garantisca al tempo stesso protezione, sicurezza, comfort e benessere. Casa negata e casa da inventare, costruire e immaginare. Spesso altrove, a volte in un luogo che solo dopo anni riesci a chiamare casa. Qual è la casa che ci aspetta? Esiste già la casa che abiteremo? La casa è un luogo fisico o solo il nostro posto nel mondo?”.

©CristinaGeraci, TEDxCapoPeloro, Messina, 23 novembre 2019

Non appena ho scoperto che la tematica sarebbe stata affrontata in questo modo, mi sono sentita subito in sintonia con le idee che intendevo destinare all’editoriale, e mi sono ripromessa che avrei fatto menzione del TEDxCapoPeloro, come ulteriore elemento a supporto delle mie teorie. Così come auspicato dagli organizzatori, l’evento riesce nei suoi intenti. Apprezzo lo storytelling proprio perché stupisce, emoziona, e fa riflettere. In particolare, è il talk di Carmelo Isgrò a suggerirmi input stimolanti. Il biologo messinese dall’esperienza professionale eclettica ed eterogenea, rende poliedrico anche il significato del termine “casa”. Lo fa partendo dalla definizione di “casa”, e rendendosi conto che è un concetto che cambia a seconda delle specie di esseri viventi che abitano un determinato tipo di spazio. Lo speaker giunge anche alla conclusione che agli occhi dell’uomo stesso, “casa” ha concezioni molto relative. E se ci pensiamo bene, è proprio vero. Forse si tende a dare per scontato o a sottovalutare la declinazione di “casa”, senza accorgersi che mai come nel secolo attuale, la sua accezione è diventata invece sempre più labile, instabile, precaria.

Proprio avantieri ho letto che i koala sono una specie a rischio di estinzione a causa, tra le altre, della perdita del loro habitat naturale e dei cambiamenti climatici. Un habitat quindi può diventare inospitale, nel momento in cui vengono meno le condizioni minime necessarie per far vivere un certo tipo di soggetti che lo popolano. Quello dei koala e di altri animali è un caso estremo che purtroppo accade, anche per colpa dell’uomo, ma di questo passo ci andremo vicini anche noi esseri umani se continuiamo a maltrattare l’unica nostra vera casa: il pianeta, di cui siamo ormai più parassiti che graditi ospiti. Ma restringiamo il cerchio a Messina e proviamo a capire perché sono partita da così tanto lontano per spiegare il termine “casa”.

Da quando ho conseguito il diploma di scuola superiore ho avviato un percorso di crescita costituito da molte esperienze positive, alcune rinunce, una manciata di scelte sofferte e anche errori. Ora che di tempo ne è passato, posso fare un bilancio analizzando il presente con nuovi occhi, adesso più consapevoli, maturi e lucidi. In quattro anni, ogni volta che ho lamentato le condizioni in cui versa Messina – occupa da anni gli ultimi posti nella classifica delle città italiane per qualità della vita, oltre a essere definita la città più disoccupata d’Italia sulla Gazzetta del Sud e in emergenza di disoccupazione su MessinaToday – mi è stato detto e ho letto di tutto. Tra capri espiatori e colpevoli, si addossa la responsabilità della crisi del mezzogiorno, in particolare di Messina in questo caso, un po’ a tutto: alla mentalità dei messinesi, all’immigrazione, alla mafia, alla politica (che spesso corrisponde alla precedente), al fatto che il nord si arricchisce attraverso il sud e ne mina la crescita avallandone l’arretratezza. Segue chi individua una cattiva amministrazione del turismo, chi afferma che in fondo “a Messina non c’è nenti”, e chi più ne ha più ne metta.

©GiusyBoccalatte, Imperial War Museum, Londra, 2014

Tra dichiarazioni fondate e altre più discutibili, quando palesavo la mia voglia di andarmene dalla falce della Sicilia, alcuni mi rispondevano: “ma chi te lo fa fare? Almeno laureati qui”, oppure “criticare ciò che non va ma desiderare di lasciare Messina è da incoerenti, perché equivale a non avere il coraggio di restare per cercare di cambiare le cose”. Ammetto che quest’ultimo commento mi ha sempre infastidita, alimentando sensi di colpa e giudizi che come catene hanno anche se parzialmente contribuito a ritardare e rimandare la mia partenza. Poi un giorno mi sono svegliata, stanca più mentalmente che fisicamente, e come folgorata da un’illuminazione ho capito: quando di possibilità te ne dai e se ne danno troppe a un luogo, non vivi più, ma sopravvivi soltanto. È inevitabile che poi arrivi il momento in cui senti l’esigenza impellente di dare una svolta alla tua vita, scartando tutto ciò che non ti fa più stare bene, perché a prescindere che il problema possa anche essere la tua crisi identitaria e qualsiasi parte del mondo potrebbe non andarti bene, percepisci che qualcosa dove ti trovi adesso non funziona più, e che abiti un posto che non senti più casa tua e che ti sta stretto.

©CristinaGeraci, Francesco Biacca, TEDxCapoPeloro, Messina, 23 novembre 2019

Sono giovane e ho sicuramente tanto da imparare ancora e di cui essere davvero sicura, ma ho una certezza: Messina non mi rende più felice. La posizione geografica privilegiata in cui sorge non è più sufficiente. Il mare e le bellezze naturali che offre non mi bastano più, se ci si investe poco. Osservo alcune zone della città con sconcerto. Le vedo trascurate, povere di innovazione e di opportunità. Quando al mio ultimo anno di liceo, in letteratura inglese, mi sono imbattuta nello studio di “Gente di Dublino”, ho paragonato Messina alla capitale irlandese, al modo in cui Joyce la raccontava e descriveva come città paralizzata. Ecco, è così che vedo Messina adesso: statica, poco vivace, martoriata, sfruttata e rassegnata al suo destino. Mi sento appartenere a una categoria di altri miei coetanei che si alzano dal letto senza ricordare più un sogno, spenti, privi di speranza e fiducia in una politica losca e marcia, cancro di una terra in cui non c’è spazio per tutti, appannaggio di pochi e a favore di coloro che sempre hanno avuto e sempre avranno, a volte gli stessi che lasciano Messina e il sud più per moda che per necessità di affermarsi onestamente.

Forse mi verrà detto che non mi so accontentare, che non mi so adattare, e che avrei avuto comunque la voglia di esplorare il mondo e formarmi altrove, anche se Messina fosse stata migliore. Probabilmente è vero. Per mia personalità avrei sicuramente cercato un posto più conforme ai miei interessi e al mio stile di vita, e infatti è un altro tra i motivi che mi spinge a fare le valigie piene di tutto ciò che ho vissuto fino ad adesso e che mi servirà, per sradicare le radici da Messina, trasformarle in ali, e poi piantare nuove radici nei posti in cui andrò. Le mie prime radici però non verranno mai dimenticate. Non è mia intenzione rinnegarle o vergognarmene. Ma saranno conservate più nel mio cuore e nella mia mente. Tendere al cosmopolitismo non significa vantarsi di aver viaggiato in modo meramente turistico in mille posti del mondo, bensì vuol dire vivere quei posti apprezzandone le differenze culturali e vedendole come occasione per capire il proprio ruolo nel mondo e sviluppare una cittadinanza attiva. Non si fa peccato a sentire di abitare il mondo più che una casa singola.

©GiusyBoccalatte, Wild Duck, Dublino, 2019

La mia curiosità e il mio carattere spigliato e intraprendente mi hanno sempre agevolata e spinta a cogliere tutte le possibilità di viaggio di varia durata che mi si sono presentate fino ad oggi, realizzate prevalentemente grazie a progetti associativi e convenzioni, oltre che all’aiuto della mia famiglia. Non si tratta di nulla di eccezionale, nulla di lussuoso, nulla da ostentare. Per me non erano vacanze, ma viaggi di scoperta che mi hanno consentito di farmi portatrice della mia nazionalità e della mia Messina, senza annullarla, ma cercando di capire nuovi punti di vista che potessero allargare i miei orizzonti e rendere la mia mentalità più elastica e sostenibile. Ho seminato tante case tanti quanti sono i posti che ho visitato. Ritrovo casa in tutti quei posti dove ho lasciato pezzi di me e pezzi di cuore, che ho colmato con tutto ciò che la gente di quei luoghi e che quei luoghi stessi mi hanno donato.

A ogni ritorno, mi sono sentita straniera in quella che prima ritenevo essere la mia unica casa, fino a scoprire di trovarmi forse nel posto sbagliato per me, che non mi lascia esprimere come vorrei, che non sempre tira fuori il meglio di me, e che soffoca le mie ambizioni. I sogni non devono essere calpestati, quindi forse bisogna piantarli in un terreno più fertile per coltivarli. I koala purtroppo non hanno più le condizioni favorevoli per vivere, e forse potrebbe non esserci possibilità di salvezza per loro. Noi uomini, pur causando un male che danneggia l’intero ecosistema, siamo più fortunati e possiamo spostarci. C’è chi direbbe che le rivoluzioni si fanno restando a casa propria. Io dico invece che la vera rivoluzione è cambiare sé stessi, in qualsiasi posto, e riscoprirsi per conoscere meglio sé stessi e il mondo. Solo a questo punto i cambiamenti possono avvenire più facilmente, e magari, tornando un giorno nella propria casa natale, portare la propria esperienza per migliorare le cose.

 

Giusy Boccalatte

Fonte dell’immagine in evidenza: Daniele Passaro