La diagnosi di cancro non è mai stata così precoce

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Sanjiv Gambhir, direttore del Canary Centre at Stanford for Cancer Early Detection

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine ha messo a punto un nuovo metodo per diagnosticare precocemente il cancroLo studio è stato pubblicato il 18 marzo su Nature Biotechnology e vede tra i suoi autori principali Sanjiv “Sam” Gambhir, direttore del Canary Centre at Stanford for Cancer Early Detection, e Amin Aalipour, uno specializzando. 

“Abbiamo seguito la diagnosi precoce del cancro per anni, ma questa volta ci siamo arrivati da un’altra angolazione, ha annunciato Sam Gambhir. E forse, in un terreno già molto battuto ma ancora arduo, è questo il segreto, cambiare prospettiva. 

L’arma migliore che ad oggi la medicina offre per la cura dei tumori è la diagnosi precoce. Basti pensare a come un frequentissimo cancro al seno al primo stadio assicuri una sopravvivenza a 5 anni di oltre il 95%. Lo stesso tumore, diagnosticato al quarto stadio, abbassa l’aspettativa al 5%. Da qui l’importanza della prevenzione e dei controlli di routine, e di pari passo la necessità di strumenti sempre più precisi e complessi.

La ricerca ha fatto innumerevoli passi in avanti in quest’ambito, ma probabilmente non saranno mai abbastanza. Per la diagnosi di tumore, accanto ai mezzi radiologici (TC, PET, RMN), vengono ricercati dei biomarcatori tumoralimolecole che sono associate alla presenza di un tumore. Sono esami poco invasivi e possono essere di grande aiuto per il clinico, sia per la diagnosi che per la terapia. Hanno però una specificità ed una sensibilità poco affidabile, per questo necessitano sempre di una convalida con i mezzi tradizionali. Il gruppo di ricercatori guidati da Sam Gambhir ha sperimentato un curioso metodo per incrementare in modo significativo l’efficienza della diagnosi precoce per alcuni fra i tumori più frequenti e temibili per l’uomo: il carcinoma mammario ed il cancro del colon.

Alcuni dei più comuni marker tumorali

La squadra ha giocato sui punti di forza insiti nei macrofagi, cellule del sistema immunitario; molte cellule immunitarie, compresi i macrofagi, cambiano a livello genetico quando si preparano a svolgere compiti immunologici. Alcuni geni si attivano quando un macrofago entra in contatto con l’ambiente tumorale, aiutandolo ad eliminare le cellule morte o anomale. Nello specifico, i macrofagi possiedono due fenotipi: M1, associato all’infiammazione comune (come per una ferita), ed M2, associati ad una neoplasia. 

Quando uno di questi macrofagi incontra il tumore e muta l’aspetto verso un fenotipo M2, si avvia un meccanismo molecolare che porta all’attivazione di vari promotori (il promotore è una sequenza di DNA che innesca l’attivazione genica). Una volta che un promotore viene attivato, il gene viene espresso sotto forma di una molecola.

Nello studio, tramite tecniche di ingegneria genica, si è utilizzato il promoter del gene arginasi-1 come attivatore di un gene diverso dal normale, quello per la luciferasi (molecola luminescente, la stessa che fa brillare le lucciole!). I macrofagi, opportunamente stimolati dal tumore, liberano questa molecola che può essere rintracciata da immagini a bioluminescenza e quantificata nel sangue tramite un semplice prelievo.  

Gambhir e il suo team hanno testato i macrofagi modificati nei topi, scoprendo che potevano rilevare tumori alla mammella di solo 4 millimetri di diametro. In particolare, rilevano: tumori fino a 50 mm³ nel 100% dei casi, tumori tra i 25-50 mm³ nel 85%, tumori sotto i 25 mm³ nel 70%.

Questo metodo di immunodiagnostica ha avuto risultati eccezionali rispetto ad altri metodi convenzionali: il cfDNA (molecole di DNA tumorale liberate nel sangue) raggiunge un significato diagnostico quando il tumore ha un volume di 1500-2000 mm³; una scansione PET è capace di rilevare tumori con un volume minimo di 200 mm³; il CEA (antigene carcino embrionale) è alterato quando il tumore ha già superato i 100 mm³ (e presenta molti limiti di specificità).

Tuttavia non è tutto cancro ciò che luccica! Anche se una fiala di prelievo è fluorescente e si registrano livelli anomali di luciferasi, non può ancora essere posta una diagnosi di certezza. Infatti i macrofagi possono attivare questi geni modificati anche quando stimolati da una manciata di cellule atipiche o da una semplice ferita: si possono avere falsi positivi. 

Gli studiosi pongono come prossimo obbiettivo quello di rendere la metodica più specifica, così da poter eliminare il rischio di avere questi errori e sopravvalutare o sottovalutare la reale patologia. Inoltre il metodo può essere implementato con altre cellule immunitarie, come i linfociti T e B, e con altri stimoli target. L’intenzione è quella di estendere l’utilizzo dello strumento a tumori e patologie diverse. All’orizzonte i ricercatori immaginano di poter rendere questo strumento il più versatile ed economico possibile, così da poter essere utilizzato su larga scala.

Antonio Nuccio

 

Bibliografia: https://www.nature.com/articles/s41587-019-0064-8