Sulla nostra pelle: a Messina il film-evento su Stefano Cucchi

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È agghiacciante pensare a quanto male immotivato venga giornalmente perpetuato dagli esseri umani a danno di altri esseri umani, ma è ancor più tremendo riflettere sulle modalità con cui questa inflizione di dolore venga concepita dalla collettività circostante. In un’atmosfera di apatia generale, il danneggiamento fisico e morale viene spesso meccanicamente inglobato in quella spirale di noncuranza e indifferenza a cui ormai l’intera società sembra essersi assuefatta. E proprio per combattere questo mostro crudele che è l’indifferenza, l’Università di Messina ha deciso di prendere parte all’iniziativa che ormai da qualche mese anima le città italiane: la proiezione del film Netflix di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle, gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi”. L’evento, a cura delle docenti Paola di Mauro e Domenica Bruni, presentato dal Cospecs e dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus, si è svolto martedì 20 novembre 2018 presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive Psicologiche Pedagogiche e degli Studi culturali dell’Università di Messina. Moltissimi sono stati gli studenti universitari coinvolti, tra i circa 200 spettatori presenti. L’iniziativa infatti, come precisa il Direttore del Cospecs Pietro Perconti, si pone innanzitutto come occasione educativa per discutere non esclusivamente di un fatto di attualità, ma di un intero sistema evidentemente imperfetto. Si sono confrontati con il pubblico i relatori Stefania Mazzone, insegnante di Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, Pierpaolo Montalto, avvocato penalista e Pietro Saitta, docente di Sociologia del Cospecs.

La proiezione del film è stata preceduta dalla visione di un breve video, inviato dall’attore Alessandro Borghi, che nel film interpreta Stefano in una maniera giudicata impeccabile dagli stessi famigliari. Borghi non nasconde la grande soddisfazione provata nel lavorare per questo film, afferma emozionato: “Dico grazie alla famiglia Cucchi per essersi fidata di me, per avermi permesso di interpretare Stefano.” Famiglia che ha tratto dal film, uscito lo scorso 12 settembre 2018 e presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la forza di continuare strenuamente quella lotta iniziata ben nove anni fa e volta a restituire  verità e dignità all’uomo Stefano Cucchi, vittima di quella che la prof.ssa Mazzone ha definito “società carcerata”, dominata dal proibizionismo e dall’assoluto monopolio della violenza da parte dei più forti a danno dei più deboli. Da un tale contesto, che si riflette in misura ristretta nel meccanismo carcerario, nessuno di noi può dirsi escluso, né come vittima, né come carnefice. In questa dimensione di sopraffazione emerge chiaramente la volontà, insita in ogni uomo, di abusare ingiustamente del proprio potere, simboleggiato da una divisa che perde inevitabilmente di valore se di essa si abusa. È quanto testimonia il caso Cucchi che purtroppo, come ricorda l’avvocato Montalto, non rappresenta un’eccezione nell’odierno panorama giudiziario, ma una “drammatica regola”.

da sin. Di Mauro, Mazzone, Montalto, Saitta

Tutto ha inizio il 15 ottobre 2009, quando il ragioniere romano Stefano Cucchi, dopo essere stato fermato dai carabinieri, viene perquisito e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, 3 confezioni di cocaina e una pasticca di un medicinale per l’epilessia di cui soffriva. Dopo sette giorni di custodia cautelare, trascorsi tra il carcere Regina Coeli di Roma e il reparto di Medicina protetta dell’Ospedale Sandro Pertini, il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore. Già dalla mattina dell’udienza immediatamente successiva all’arresto Stefano presenta evidenti segni di percosse sul viso, mostra di avere difficoltà a camminare, ha un respiro affannato, presenta malessere e dolori evidenti dovuti alla rottura in due punti della colonna vertebrale. Nei successivi sei giorni di agonia Stefano entra in contatto con 150 pubblici ufficiali, ma tutti sembrano preoccuparsi più di se stessi che delle condizioni del ragazzo. Come sottolinea il prof. Saitta, la storia di Cucchi diviene in tal senso “storia di consegna”, in cui ognuno sembra curarsi esclusivamente dell’atto immediatamente precedente a quello in cui Stefano viene posto sotto nuova custodia. Tuttavia, nessuno sembra andare oltre quel gretto sostrato di pregiudizi che impedisce di vedere l’uomo Stefano, debole, spaventato e bisognoso di aiuto che urla silenziosamente nel tentativo, purtroppo fallimentare, di sovrastare il Cucchi carcerato. Tutto questo è il risultato di un “processo di disumanizzazione della relazione”, dettato dal dominio incontrastato della “violenza strutturale” operata da parte dell’intera società a danno della vittima Stefano. Essa, come spiega il prof. Saitta, è quel tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita perché prodotta dall’organizzazione sociale stessa. Tale definizione non giustifica tuttavia l’assenza di carnefici, quasi come se si volesse attribuire ogni responsabilità all’astratto paradigma sociale vigente. Al contrario, come chiarisce l’avvocato Montalto, “il responsabile della morte di Stefano è lo Stato”, rivelatosi incapace di custodire un cittadino nel momento in cui questo viene posto sotto la sua tutela. Ma la verità, così evidente agli occhi di tutti e contestualmente tanto celata, è stata confessata solo lo scorso 11 ottobre, dopo nove anni  di estenuante lotta condotta dalla famiglia Cucchi, a cui non sono state risparmiate pesanti critiche, insulti, diffamazioni. È stato il carabiniere Francesco Tedesco a confessare quanto accaduto la notte del 15 ottobre nella caserma di Roma Casilina, dove Stefano era stato condotto immediatamente dopo l’arresto. Il pestaggio è avvenuto ad opera dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, imputati insieme a Tedesco per omicidio preterintenzionale. Il contenuto della deposizione, spaventosamente agghiacciante nella sua veridicità, è stato letto dalla docente Paola Di Mauro:

«Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. […] Io spinsi via Di Bernardo, ma prima che potessi intervenire D’Alessandro colpì Cucchi con un calcio in faccia (o in testa) mentre era sdraiato in terra».

La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che non sarebbe eccessivo definire l’Antigone dei tempi moderni, ha definito questa testimonianza il tassello mancante in grado di sgretolare quel muro di indifferenza costruito fino a quel momento dagli assassini di Stefano. Il film di Alessio Cremonini sembra conferire ancor più vigore a quel vento distruttivo che sta irruentemente intaccando questa fortificazione di omertà. Tale possibilità è offerta dalla spiazzante ma veritiera brutalità che caratterizza la pellicola definita da un esponente dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus “vera, basata interamente sugli atti processuali”, ma soprattutto in grado di far emergere “la solitudine e la paura provate da Stefano e, dall’altro lato, l’indifferenza altrui”.

Questo film turba lo spettatore, lo destabilizza totalmente, lo colpisce con la stessa violenza usata contro Stefano. Durante la visione è impossibile non avvertire su di sé la crudeltà delle botte, l’impassibilità degli sguardi, la pressoché costante assenza di cura nei confronti di un essere umano privato della propria dignità. È impossibile, cioè, non avvertire sulla propria pelle ciò che Stefano ha provato e subito in ben sei giorni di agonia, condensati negli intensissimi 200 minuti che Alessio Cremonini e Alessandro Borghi ci regalano. Ma la sensazione di ossa rotte, la rabbia mista ad impotenza e il senso di colpa non devono sparire immediatamente dopo la visione del film, come si disperdessero nuovamente in quell’usuale noncuranza quotidiana. È necessario ricordare che, purtroppo, questo film è la trasposizione cinematografica di una triste realtà. È necessario assumere su di sé la consapevolezza che la pelle di Stefano è anche la nostra pelle, che la sua morte è la morte di ognuno di noi, che il lutto della famiglia Cucchi è un nostro lutto. Ogni singolo spettatore non può fare altro che provare la dovuta indignazione nel constatare che Stefano, ancor prima che dalle botte, è stato ucciso dall’omertà, da quel devastante silenzio avente in sé la carica distruttiva di un esplosione. È evidente allora che questo tragico epilogo non è stato conseguenza di eventi casuali o di giustificabile superficialità, bensì della volontà di rimanere sordi e mostrarsi cechi dinnanzi all’animalesco esercizio della violenza. Perché anche di essere indifferenti si è sempre pienamente responsabili.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2018

Giusy Mantarro