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Echo chambers e dissonanze cognitive: la scienza di difendere la scienza

Universome Redazione
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Scienza & Salute
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La comunicazione scientifica, negli ultimi decenni, è diventata sempre più pervasiva. Tutti parlano di scienza: dai politici ai giornalisti, da Wikipedia a Piero Angela, dai talk shows a tuo cugino.

Si parla di scienza per i motivi più disparati: per puro intrattenimento, a volte, con lo scopo di soddisfare la curiosità altrui. Ma ci sono anche motivi più seri: ad esempio, per giustificare una scelta, alle volte particolarmente importante per chi la compie (ad esempio, fare o non fare un vaccino, prendere o non prendere un farmaco) o per l’ambiente circostante (si pensi alle campagne contro l’inquinamento). Motivi che rendono fondamentale il fatto che la divulgazione scientifica funzioni bene, che sia efficace e chiara.

 

A questo fenomeno di massificazione della comunicazione scientifica ne corrisponde un altro per certi versi uguale e contrario: la circolazione di bufale, fake news, notizie scientifiche false, talvolta delle vere e proprie truffe, altre volte talmente articolate da assumere i contorni di vere e proprie teorie del complotto.

 

Comunicazione scientifica e bufale, per quanto apparentemente opposti, possono in realtà essere considerati due facce della stessa medaglia. Sia il divulgatore scientifico che il creatore di bufale, infatti, per comunicare le loro posizioni, mettono in atto processi narrativi, che, in quanto tali, non sono mai ideologicamente neutri: piaccia o no, entrambi fanno riferimenti a sistemi di valori e di credenze condivisi dal gruppo sociale a cui il narratore fa riferimento.

 

L’avvento dei social network ha amplificato ulteriormente la portata del problema: gli algoritmi informatici che regolano i social  sono infatti costruiti in un modo tale da facilitare l’interazione con soggetti che potenzialmente la pensano come noi e l’esposizione a informazioni che confermano le nostre posizioni. Si formano così dei gruppi di persone che condividono gli stessi sistemi di valori e di credenze e quindi sono potenzialmente più propensi a ritenere vere (o false) le stesse informazioni, si tratti di divulgazione scientifica o di teorie del complotto: sono le cosiddette “camere di risonanza”, o echo chambers.

 

La reazione al fenomeno delle bufale, da parte di chi si occupa di comunicazione scientifica, è spesso quella del cosidetto debunking: prendere le false notizie o le false teorie e confutarle pezzo per pezzo presentando i dati scientifici disponibili sull’argomento. Capita spesso che il debunking assuma toni anche molto accesi, per mettere in evidenza l’assurdità e l’infondatezza delle false notizie. La convinzione di chi pratica il debunking è che questo approccio, basato sulla solida evidenza delle prove addotte e sulla limpidezza delle argomentazioni, possa in qualche modo persuadere chi crede alle bufale a rivedere le proprie idee sull’argomento, oltre a convincere eventuali scettici ed indecisi.

 

Ma è veramente così? Sebbene apparentemente fondato in termini logici, questo ragionamento sembra non tenere conto di un fenomeno noto da decenni in psicologia sociale: la dissonanza cognitiva. Semplificando, un soggetto si trova di fronte a una dissonanza cognitiva quando si trova costretto a riconoscere come vera una affermazione che contrasta con il proprio pregresso sistema di valori e di credenze. In queste situazioni, è come se il nostro cervello mettesse in atto una sorta di meccanismo difensivo volto a rimuovere al più presto la contraddizione, e, nella maggior parte dei casi, ciò avviene attraverso la assoluta negazione o addirittura l’attacco nei confronti dell’affermazione nuova.

 

Si potrebbe quindi ipotizzare che un soggetto fortemente convinto della veridicità di una bufala, magari perché condivisa da soggetti che la pensano come lui e condividono la sua echo chambermesso alle strette dal rigore del debunker possa reagire in maniera opposta a quanto atteso, addirittura in maniera aggressiva, rifiutando di cambiare idea.

 

É possibile mettere alla prova questa ipotesi? Si, ed è quello che ha fatto questo articolo, uscito su PLOS One e firmato da un team internazionale guidato da Walter Quattrociocchi, dell’Università Ca’Foscari di Venezia. Sono stati analizzate le attività (Like, commenti e condivisioni) su Facebook US di oltre 54 milioni di utenti nel lasso di tempo di cinque anni, su un database di pagine divise fra pagine a tema scientifico e pagine di controinformazione. Una prima analisi quantitativa ha consentito di dimostrare una polarizzazione fra utenti che svolgono preferenzialmente attività riguardanti le pagine scientifiche (pro-science) e utenti che le svolgono nei confronti delle pagine di controinformazione (pro-conspiracy). In breve, i due gruppi di utenti tendono a interagire preferenzialmente tra di loro e tra le loro pagine di riferimento, piuttosto che con membri o pagine del gruppo opposto, confermando così l’esistenza delle echo chambers. In aggiunta, sono stati valutati i commenti e le attività dei soggetti del gruppo “pro-conspiracy” in risposta a post provenienti da pagine che si occupano di debunking, evidenziando una prevalenza netta di contenuti negativi: in pratica, i soggetti che credono a teorie del complotto e bufale tendono a reagire negativamente sui social se esposti a post di debunking. Non solo, ma è anche stata riscontrata, per questi soggetti, una aumentata attività nelle loro pagine “di riferimento” a seguito dell’esposizione: come se l’esposizione alle smentite li avesse ulteriormente irrigiditi nelle loro posizioni.

 

Morale della favola? Intanto che l’approccio del debunking non solo non è efficace a far cambiare idea, ma potrebbe anche essere dannoso; e secondariamente che esiste anche una scienza di raccontare la scienza, e persino una scienza di difenderla. Divulgatori scientifici non ci si improvvisa e l’articolo si conclude infatti con un invito, da parte degli autori, ad adottare strategie di divulgazione più morbide, per abbattere i muri tra le camere di risonanza in cui le bufale proliferano. Un monito che dovrebbe risuonare nelle menti di tanti auto-proclamati “paladini della scienza”, che proprio alla luce di dati scientifici sembrano fare più danno che altro allo sviluppo di un dibattito sano ed efficace.