Messina, la memoria negata: passato, presente e futuro

Redazione UniVersoMe
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Poco più di un anno è trascorso da quando ho iniziato la mia avventura qui ad UniVersoMe. Ricordo che inizialmente volevo dedicarmi alla rubrica di Scienza e Ricerca, ma che, alla prima riunione di redazione, proposi assieme ad Alessio Gugliotta di lavorare a una rubrica di cultura locale, che adesso curo come referente assieme a quella sui personaggi storici, e che il 9 marzo dello scorso anno uscì col suo primo articolo, con il nome di Messina da Scoprire. 

“Questo se la sta suonando e cantando da solo”, starete pensando. Ok, forse avete ragione, ma chiariamoci, non è della mia rubrica che voglio parlare in questo editoriale, quanto della città di Messina e del controverso rapporto della sua cittadinanza con il suo patrimonio storico, artistico e culturale.Si tratta di una tematica con la quale personalmente sono fissato al limite dell’ossessione, e nemmeno io so bene perché: forse perché Messina, come scrivevo nel mio primo articolo, è una città dove la Storia gioca a nascondino, perché le peculiari vicende che ne hanno segnato lo sviluppo storico e urbanistico oggi fanno sì che solo poche tracce di quello che è stato il suo passato riescano ad emergere distintamente dal tessuto urbano novecentesco, successivo al terremoto del dicembre 1908, su cui oggi la città si sviluppa.

Che la storia di Messina sia stata davvero importante è qualcosa che forse non tutti i suoi cittadini oggi percepiscono: eppure non è becero campanilismo, basta sfogliare qualche pagina dai libri di storia della Sicilia per farsene una idea; basti pensare che nel Cinquecento Messina si contendeva addirittura con Palermo il ruolo di capitale della Sicilia (Messana, nobile Siciliae caput, Messina nobile capitale della Sicilia, recita un motto latino dell’epoca) e che comunque fino alla fine del ‘600 era la seconda città della regione per importanza economica, politica, militare e culturale.

 

Se è dunque vero che il messinese medio spesso e volentieri non ha affatto contezza del grande passato della sua città, è anche vero che non glie ne si può fare del tutto una colpa: certo non è colpa sua se la storia della città è stata costellata di guerre, carestie e calamità naturali culminate in un terremoto devastante. Quello su cui però dovremmo iniziare a porci delle domande è perché quel poco che resta (indubbiamente poco, ma sotto certi aspetti più di quanto si tenda a pensare) venga così colpevolmente ignorato e trascurato. 

 

Da quando scrivo su Messina da Scoprire ho fatto un po’ il callo a vederne e sentirne davvero di cotte e di crude a riguardo. Gli esempi si sprecano e non pretendo affatto di essere esaustivo ed elencarli tutti (dovrei scrivere pagine su pagine e vi annoiereste a leggermi), ma qualche sassolino dalla scarpa voglio togliermelo. Al centro a due passi dal Duomo c’è uno dei più caratteristici monumenti dell’arte arabo-normanno-bizantina in Sicilia, un ibrido stilistico assolutamente peculiare e unico nel suo genere che è l’Annunziata dei Catalani: sembra banale, ma in anni che frequento Messina l’avrò vista aperta se è vero due o tre volte, praticamente un terno al lotto. Una altra piccola perla dello stile arabo-normanno si trova poco lontano da lì in via Romagnosi, è la chiesa di San Tommaso il Vecchio: sorvolando sul discutibile restauro novecentesco, anche lì i cartelli riportano un orario di apertura decisamente striminzito (dalle 8 alle 11) che a mia memoria difficilmente viene rispettato. E se questo succede in pieno centro, immaginiamoci poi cosa succede un po’ più lontano, e le condizioni in cui si trova la monumentale chiesa normanna della Badiazza, decisamente più periferica.

 

Di quella che una volta era la roccaforte principale di Messina, il castello di Rocca Guelfonia o Matagrifone, oggi resta solo una torre e qualche frammento di mura; l’antico portale cinquecentesco è abbandonato in un vicolo cieco, Via delle Carceri, senza neanche un segnale per raggiungerlo. La piccola chiesa di Sant’Elia, anche questa in pieno centro, a due passi da Cairoli, è una delle pochissime strutture ad essere sopravvissute in buona parte ai terremoti e dentro preserva i magnifici stucchi settecenteschi originali: altrove forse sarebbe un fiore all’occhiello dei percorsi turistici, invece è quasi totalmente sconosciuta a gran parte della cittadinanza, spesso chiusa, e i suoi interni sono anche deturpati da alcuni discutibilissimi interventi fuori stile che farebbero rabbrividire il buon Vittorio Sgarbi. Ciliegina sulla torta, ha fatto di recente discutere l’opinione pubblica l’“apertura” della “nuova” sede del Museo Regionale: virgoletto “nuova” perché in realtà i lavori si protraggono dagli anni ’80, e “apertura” perché comunque si è trattato di una apertura “a metà”, frettolosa e parziale, in cui, ieri come oggi, ancora una grande parte della vastissima collezione del Museo attende di essere mostrata al pubblico. 

Chiudo qui l’elenco non perché si sia concluso, ma perché non è mia intenzione trasformare questo mio editoriale in un rigurgito di lamentele generiche, che restano assolutamente fini a se stesse finché le problematiche che esse evidenziano non diventano di interesse pubblico. Del resto, la situazione non è proprio nera come potrebbe apparire e di recente abbiamo assistito a interventi di salvaguardia e valorizzazione assolutamente lodevoli, come quello sugli scavi di Largo San Giacomo, o sulla Galleria Vittorio Emanuele, ad opera di una associazione basata sull’iniziativa popolare, PuliAmo Messina. La lista però continua ad essere lunga ed è importantissimo che se ne parli, che la cittadinanza sia resa cosciente ogni giorno della grandezza e bellezza del proprio patrimonio culturale e artistico in modo da spingerla ad esigerne la rivalutazione. Davanti a un passato glorioso ma dimenticato, e a fronte di un presente da dimenticare, non ci resta che sperare in un futuro migliore. 

Gianpaolo Basile