Pesce Zebra: come può un minuscolo pesciolino aiutare l’essere umano

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Pesce Zebra, Daino Zebrato, Zebrafish, Danio Rerio: questi sono i nomi con cui viene chiamato lo stesso piccolo pesciolino d’acqua dolce, appartenente alla famiglia Cyprinidae.

Il pesce zebra è molto comune in Asia, anche se lo si ritrova in quasi tutti gli acquari del mondo poiché si adatta facilmente ai vari habitat. Negli ultimi anni è diventato il modello animale più utilizzato negli studi di sviluppo e di funzione di geni, in tossicologia, oncologia e di rigenerazione.

La ragione di questo ampio utilizzo è sia di natura genetica, il suo genoma sequenziato nel 2001, è infatti molto simile a quello umano, sia di natura pratica poiché è un pesce che si riproduce molto velocemente ed i suoi embrioni, trasparenti, facilitano l’osservazione di numerosi aspetti biologici legati allo sviluppo e differenziazione cellulare.

La particolarità, in assoluto, del pesce zebra è che il suo organismo è in grado, allo stadio larvale, di rigenerare tutti i tessuti, per questo motivo è un modello di grande interesse per la medicina rigenerativa.

Negli ultimi mesi, grazie ai ricercatori della Duke University, è stato visto che, tra i tessuti dell’animaletto, anche il tessuto nervoso detiene questa capacità di rigenerazione. Se, infatti, l’animale va incontro a una lesione al midollo spinale, nell’arco di 8 settimane questa si rigenera.

L’esatto contrario accade nell’uomo. Il midollo spinale dell’essere umano, essendo il nostro tessuto nervoso di tipo permanente e quindi perdendo la capacità di rigenerarsi, non può andare incontro a tale fenomeno. Succede quindi che, se il midollo spinale si lede, si va incontro a paralisi o, nei casi più gravi, a morte.

Ma, qual è il meccanismo biologico che avviene nel pesce zebra? Se c’è una lesione nel midollo spinale dello zebrafish, questo va incontro ad una fase di rigenerazione durante la quale si crea un ponte cellulare al di sopra di essa. Un gruppo di cellule nervose di supporto (le cellule della glia) forma proiezioni che si estendono a distanze di decine di volte la loro lunghezza: solo a questo punto nuove cellule nervose le seguono a ruota, riempiendo il “buco” della ferita.

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Tra le decine di geni di zebrafish che si sono mostrati più attivi dopo una lesione spinale, i ricercatori ne hanno identificati sette che codificano per proteine secrete dalle cellule. Una di queste, chiamata CTGF (fattore di crescita del tessuto connettivo) ha calamitato l’attenzione perché i suoi livelli sono massimi nelle cellule della glia che intervengono a far da ponte in caso di danno. Quando gli scienziati hanno eliminato geneticamente il CTGF dagli zebrafish, gli animali sono risultati incapaci di riparare alle lesioni.

La versione umana di CTGF condivide il 90% degli amminoacidi con quella degli zebrafish: quando i ricercatori hanno aggiunto il nostro fattore di crescita alle lesioni dei pesci, gli animali sono ritornati a nuotare a due settimane dal danno.

La differenza sembra essere nel modo in cui la proteina viene controllata: la semplice presenza di proteina CTGF nell’uomo non garantisce infatti la medesima capacità di rigenerazione. Gli stessi studi compiuti sui topi chiariranno forse perché, nei mammiferi, non avvenga un simile processo di guarigione e se, in qualche modo, si possa “insegnare” al nostro Dna il segreto del pesce zebra e, finalmente, trovare una cura anche per noi.

Elena Anna Andronico